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Questa alluvione, causata dal Cevetta, è stata quasi certamente la più devastante tra quelle che hanno colpito il territorio cebano nel corso dei secoli.
Si racconta che quel venerdì 6 luglio 1584 iniziò a piovere verso le 15 e andò avanti con normale intensità fino alle 17, in seguito l’impeto della precipitazione si fece progressivamente più violento fino a raggiungere carattere torrenziale. Il fenomeno terminò verso le 21, quando ormai i suoi effetti si erano già palesati nella loro drammaticità.
Tenendo conto che in quell’epoca le ore venivano contate a partire da quella del tramonto del giorno precedente se ne deduce che la perturbazione durò dalle attuali nove del mattino alle tre del pomeriggio.
A metà mattina il Cevetta, già ingrossato di suo ed ulteriormente alimentato dall’apporto delle acque del rio di Campetto, aveva già provocato grossi danni in Priero, con allagamento di campi, invasione di aree boschive e abbattimento di case, piccole torri e parte della muraglia di cinta. Proseguendo nella sua corsa il torrente aumentò sensibilmente la sua portata a motivo della confluenza in esso del rio Salissola e del rio Canile da una parte e del rio Ricorezzo dall’altra, tutti e tre con uno stato di piena eccezionale. Molto probabilmente a peggiorare ancora di più la situazione intervenne con repentinità anche uno smottamento da una delle rive, dovuto all’infiltrazione della pioggia che continuava a scendere copiosa, che impedì alla gran quantità di alberi sradicati e detriti di ogni genere di proseguire verso valle. Si venne così a formare una sorta di sbarramento che non consentì per un po’ il regolare defluire delle acque, ammassandole in enorme quantità. Una volta che la pressione di queste ebbe sfondata questa specie di diga, fu talmente gigantesca la loro massa mista a fanghiglia che si abbatté, quasi improvvisamente, sull’abitato di Ceva che l’esito non poté che essere quello catastrofico evidenziato da chi scrisse e tramandò i ricordi di questo tragico avvenimento.
Naturalmente non tutti coloro che trasmisero le informazioni sulla sciagura concordarono, soprattutto nei numeri, per quanto riguardava le persone e gli animali che ne restarono vittime o le case, i ponti, le chiese, le torrette di guardia, le porzioni di cinta muraria che furono abbattute dalla furia del Cevetta. Occorre però ricordare che alcuni di costoro ne furono spettatori diretti o comunque vissero in quell’epoca, altri invece ne scrissero negli anni e nei secoli successivi. In tutti i casi ognuno convenne che fu una calamità di proporzioni immense.
Il canonico Olivero nelle sue Memorie citò varie testimonianze scritte, attingendo con ogni probabilità dal Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di Sua Maestà il Re di Sardegna, del professor Goffredo Casalis.
Una, molto dettagliata, ancorché un po’ ingenua, fu di un certo Mantilleri, probabilmente abitante a Priero.
Giovanni Cappellano di Bossolasco compose invece un’elegia, in un latino elegante e ricercato, in cui descrisse i particolari dell’accaduto. Padre Giuseppe da Bra provvide alla traduzione completa di questo documento, formato da ottantasette strofe di due versi, pubblicandola nel 1959 sulla sua opera dal titolo: Ceva in tutti i tempi.
Altra ampia descrizione fu riportata dal testo di un anonimo, già menzionato nel 1796 dall’accademico Gio’ Giacinto Andrà in Notizie storiche della Città di Ceva, nel quale si diceva che: “ fu tanta e sì smoderata la copia dell’acqua piovana che straripando il torrente Cevetta allagò tutta la Città per lo spazio di tre ore, atterrò una parte delle mura, ponti, case, templi, ed un borgo che era il più alto e frequentato, vi perì un gran numero di cittadini d’ogni sesso e d’ogni età, in un colle loro ricchezze e sostanze, in un modo affatto miserando “. Il parroco cebano ricordò inoltre che il libro dei Disciplinanti della confraternita di Santa Maria, già andato smarrito al suo tempo, diceva che nel diluvio perirono 1556 persone, che fu distrutta la terza parte della Città compreso il ghetto degli Ebrei che si trovava in contrada Sparezza. Egli scrisse anche che l’unica contrada che non fu colpita fu quella che dalla porta del Brolio va al ponte san Francesco (le attuali vie Sauli e Pallavicino) e che per questo motivo venne poi chiamata “Contrada Franca”. Aggiunse che l’inondazione fu ricordata nel verbale della visita pastorale del vescovo di Sarsina monsignor Angelo Peruzzi, effettuata nel maggio dell’anno successivo, particolarmente per quanto riguardava i danni arrecati alla chiesa del convento dei Frati Minori di San Francesco. L’Olivero rammenta infine, in quanto si praticava ancora ai suoi tempi, che la Civica Amministrazione fece da subito voto alla divina Misericordia stabilendo una processione in perpetuo da effettuarsi nel giorno dell’anniversario con la partecipazione dei rappresentanti del Municipio.
Il primo testo a stampa che raccontò gli eventi, edito a Macerata in quello stesso 1584, fu di un anonimo e recava il titolo: Memoria dell’horribil diluvio occorso nel Borgo e nel Marchesato di Ceva in Piemonte. Ne parlò poi monsignor Francesco Agostino Della Chiesa nel secondo volume della Corona Reale di Savoia pubblicato a Cuneo nel 1657, nel capitolo in cui trattò dell “Signoria del Marchesato di Ceva”, sottolineando che “…l’inundatione di un torrente detto Chiavetta…“ spianò dalle fondamenta il Borgo principale causando la morte di centinaia di persone e di animali e “… perdita di una grandissima quantità di robbe d’ogni sorte…” e che “…il numero de gli habitanti à pena alla metà si è ridotto...”. Un congruo resoconto lo tracciò anche il canonico Girolamo Ghilini, storico del Seicento, negli Annali di Alessandria, del 1666. A questo fece seguito un estratto dal secondo tomo dell’opera Les Annales des Frères Mineurs Capucins del padre Antoine Caluze, predicatore cappuccino di Parigi, stampata nel 1677. In questo trattato venne però erroneamente indicato l’anno 1586.
Perviene invece dalle Memorie del cappuccino padre Agostino da Genova, come racconta padre Giuseppe da Bra nell’opera già citata, la vicenda relativa al cosiddetto “Miracolo del Santo Sacramento”. Costui giunse nel convento di Ceva nel 1621 e sentì narrare da alcuni vecchi superstiti dell’alluvione ciò che il popolo aveva considerato un fatto miracoloso e cioè che, nel momento in cui il Cevetta raggiunse il massimo livello, i frati cappuccini uscirono sulla soglia della chiesa con il Santissimo Sacramento e benedissero le acque che subito cominciarono a decrescere. Questo fenomeno straordinario venne anche riportato dal padre Caluze negli Annales sopracitati. Nel 1924 l’episodio fu raffigurato dal pittore Paolo Giovanni Crida in un affresco sulla parete destra del presbiterio della chiesa stessa.
Il 6 luglio 1984, in occasione del quattrocentesimo anniversario, a cura dell’allora Pro Loco, con l’intervento dello storico cebano Aldo Martini e di altri tecnici ed esperti in materia, si tenne una serata/convegno in cui, di fronte a un folto pubblico, si analizzarono a fondo il contesto storico, urbanistico e idrogeologico di quel tempo, le indagini pluviometriche nella zona e le cause e le conseguenze della drammatica circostanza.