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Si nutrono delle fortissime perplessità sulla veridicità di questo evento che, secondo quanto scrisse colui che ne riportò notizia, lo storico veneziano Giovanni Nicolò Doglioni (Nuova Aggiunta al Compendio Historico Universale, Venezia, 1622), vissuto a cavallo tra il Cinquecento ed il Seicento, fu una sciagura di proporzioni immani. Infatti racconta l’autore che la tanta quantità di acqua che cadde in quel periodo invernale, che fece tra l’altro sciogliere la neve accumulata sui monti, provocò nel Marchesato di Ceva, la rovina di quattro forti rocche (verosimilmente castelli) e di trentadue borghi, con la morte per annegamento di oltre quattromila persone e la perdita di innumerevole quantità di bestiame. Non è dato sapere se tutto ciò avvenne a monte od a valle della Città, ma in ogni caso si deve supporre che si fosse dovuto trattare di un’inondazione del Tanaro, in quanto chi ne riferì evidenziò la distruzione in Ceva di un ponte di dodici arcate, il che non poteva ovviamente avere attinenza con il Cevetta i cui ponti, anche in epoche lontane, non ne hanno mai avute più di due o tre. Già ad una prima analisi dell’accaduto pare abbastanza inconsueto che a Ceva e dintorni a metà gennaio una perturbazione avesse potuto avere carattere piovoso e non nevoso, ma che questo possa essere successo anche a quote elevate tanto da liquefare la neve delle montagne sembra abbastanza inverosimile. Se si prende comunque per vero il racconto, considerato quanto fu devastante l’esito della calamità nelle terre del Marchesato di Ceva, chissà quali altre immense sciagure la stessa avrebbe dovuto arrecare oltre i confini di questo, nei territori più a valle, fino alla foce. Eppure di tutto questo ulteriore possibile disastro non v’è testimonianza. Limitando in ogni modo il discorso all’ambito del cebano, si deve sottolineare che di quella che si sarebbe rivelata una catastrofe non vi è traccia negli ordinati comunali di quel periodo, né ve ne sono di altri eventi di minore portata. Allo stato attuale consta che di questo fenomeno nessun altro scrittore, storico, studioso, politico, ecclesiastico o notaio dell’epoca lasciò qualsivoglia tipo di memoria scritta sotto forma di libro, relazione, lettera, atto, documento. Chi ne parlò nei secoli successivi trasmise semplicemente la notizia senza alcun tipo di approfondimento od aggiunta, dando tutto per scontato, ad eccezione di Ludovico Antonio Muratori, storico e scrittore modenese, che un centinaio di anni più tardi nei suoi Annali D’Italia manifestò qualche dubbio circa l’effettiva consistenza di questa alluvione. A detta del Doglioni l’impeto delle acque avrebbe quindi portato via un ponte, definito bellissimo e composto da dodici archi di pietre quadre, con sopra fabbricati centoventi edifici che andarono distrutti. Il solo pensare che a Ceva avesse potuto essere eretta una così colossale struttura pare assolutamente incredibile e sotto l’aspetto architettonico e della fattibilità edilizia del tutto inconcepibile. Inoltre non esistette mai in Ceva un “tempio bellissimo e molto grande dedicato al Santissimo Salvatore del mondo”, come viene descritto nel testo, che possa essere andato rovinato nel diluvio. Di questa monumentale chiesa mai nessun altro storico parlò, né figurò descritta nelle relazioni delle visite episcopali di allora, che non solo prendevano in considerazione i grandi templi, ma anche le più piccole cappelle di campagna. Altro particolare sorprendente, che dimostra la scarsa conoscenza geografica che lo scrittore aveva del territorio italiano, è quando afferma che l’Arno scorreva attraverso la città di Ceva, confondendo il fiume toscano con il Tanaro. Non pochi dubbi permangono inoltre in merito al numero delle vittime. L’autore scrisse che i morti, in un solo giorno, nell’allagamento della parte bassa della città e nella distruzione di quella chiesa furono più di millecinquecento, cioè quasi la metà dell’intera popolazione. Nessun riferimento al disastro emerge inoltre dai contenuti delle relazioni epistolari, a quel tempo abbastanza fitte, tra il governatore di Ceva Paolo Antonio Pallavicino ed i Savoia. Pare infine accettabile sul piano logico il tornare alle già citate annotazioni di Sadoco Camino, colui che diligentemente annotò tutti gli avvenimenti considerevoli capitati in Ceva a cavallo del XVI e XVII secolo, ma neanche qui si trovano indizi che possano ricondurre a questa eclatante vicenda. In base a tutto questo viene da pensare che lo storico veneziano fosse venuto in possesso di qualche notizia frammentaria relativamente all’alluvione di ventisei anni prima e forse anche di quella del 1331 (che appunto rovinò un ponte di dodici archi) ed avesse rielaborato il tutto, in maniera a dir poco fantasiosa e spropositata, nel contesto della sua opera, che trattava cronologicamente i fatti più importanti avvenuti nel mondo fino al 1618. Stupisce un po’ il fatto, come anzidetto, che tutti gli autori locali, che hanno trattato successivamente della storia di Ceva, benché non nelle possibilità di accedere a testi e documenti come può avvenire oggi, non abbiano però fatto queste modeste considerazioni, dando quasi per certo quanto asserito dallo scrittore veneto, che comunque, ad un’indagine anche soltanto superficiale, palesava illogicità ed inesattezze. Per completezza occorre tuttavia dire che una qualche piena del Tanaro, verso i primi anni del Seicento, ci può essere stata, se si vuol dar fede ad una leggenda relativa alla costruzione della cappella di santa Libera alla Torretta. La tradizione popolare narra di un masso enorme trasportato dalle acque del fiume che si fermò nella parte bassa del borgo in un punto oltre il quale quelle non sarebbero mai più salite e lì venne edificata la chiesa.