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Diffusione del Cristianesimo
Prima di parlare dei conventi che furono attivi in Ceva occorre fare una breve introduzione su quando si diffuse il cristianesimo e per opera di chi. La religione cristiana arrivò in questi luoghi verso il IV e V secolo ed in alcune zone montane verso il VI secolo ed ancor più tardi. In Piemonte vennero istituite le prime diocesi vescovili e la prima fu a Vercelli, nel 312, con il vescovo sant’Eusebio. Verso la fine del IV secolo fu creata la diocesi di Albenga dalla quale sarebbero dipesi inizialmente Ceva e tutto il bacino dell’alta val Tanaro, che in seguito passarono alla diocesi di Alba ed infine a quella di Mondovì nel 1803.
Uno tra i più importanti evangelizzatori di questi territori fu san Siro, primo vescovo di Pavia verso la metà del IV secolo (restano reminiscenze di questo santo nella parrocchia dei Poggi San Siro, frazione di Ceva e a Sale San Giovanni). Una tangibile prova della diffusione della religione cristiana in queste zone è fornita dal ritrovamento a Ceva (nel 1958) ed a Sale San Giovanni (nel 1946) di due cippi terminali di epoca romana con su incisa la croce. Contemporaneamente all’istituzione delle diocesi venivano a formarsi anche le parrocchie che nelle campagne assumevano il nome di plebes cioè pievi.
Mentre le invasioni barbariche devastavano la nostra penisola tra i secoli IV ed VIII, il monachesimo fu forse la più importante istituzione ecclesiastica che contribuì a formare la nuova civiltà. Questa era un modo di vivere la propria religiosità imponendosi delle rinunce verso gli interessi terreni, dando risalto alla parte spirituale della propria esistenza. I primi monaci erano per lo più eremiti che si ritiravano in località isolate per dedicarsi completamente alla preghiera e non avevano quasi mai contatto con gli altri esseri umani. Dopo il IV secolo, san Girolamo, sant’Agostino, san Severino, san Paolino, san Martino, san Benedetto da Norcia e altri ancora si dedicarono alla diffusione del monachesimo, costituendo i conventi detti anche cenobi dove svolgevano il loro servizio secondo i principi di una regola e sotto la direzione di un abate. Si era appunto diffuso il Sistema delle regole che erano norme che avevano lo scopo di regolamentare ed organizzare la vita comunitaria.
Conventi a Ceva
Nei secoli passati furono presenti a Ceva tre conventi maschili dei Frati Minori Conventuali e dei Frati Minori Cappuccini, entrambi appartenenti all’Ordine Francescano, degli Agostiniani ed un monastero femminile, le suore della Visitazione o Visitandine. Inoltre, in alcune località periferiche (Ferrazzi, Marogna, Poggi Santo Spirito e Malpotremo) sono ancora rinvenibili antiche vestigia che possono far pensare ad altri piccoli insediamenti monastici e romitori, verosimilmente di altri ordini, anche se al presente non si dispone di prove documentali, ma vi sono ancora degli affreschi su edifici che sono stati strutturalmente trasformati. Certa fu invece l’intenzione, che perdurò per alcuni decenni del Seicento, ma mai giunse a buon fine, di erigere un convento di padri Domenicani nella riva che dall’inizio del Borgo Sottano saliva verso il Castello Rosso, per il quale si ha tuttora riscontro di una bozza progettuale a firma del famoso architetto Amedeo Castellamonte.
Dell’ordine francescano, i famosi Frati Minori, detti anche Frati Mendicanti, fondati da San Francesco d’Assisi nel 1209, che praticavano uno stile di vita di assoluta povertà e penitenza, in Ceva ne esistevano appunto due: quello dei Minori Conventuali e quello dei Minori Cappuccini. Questi ultimi erano nati in un secondo tempo verso gli inizi del Cinquecento, in quanto da molte parti non si praticava più pienamente lo stile di vita voluto da san Francesco e si aspirava quindi al ritorno ad un maggior rigore di vita e di privazioni.
Gli Agostiniani, sorti verso la metà del XIII secolo, seguivano invece la regola di sant’Agostino che interpretava il monachesimo non come solitudine ma come perfetta unione tra fratelli in povertà, carità, preghiera ed obbedienza.
Le Suore della Visitazione sono suore di clausura. L’ordine è stato fondato da San Francesco di Sales e da santa Giovanna Francesca di Chantal nel 1610. Queste monache sono così chiamate perché contemplano il mistero della visitazione di Maria Vergine alla cugina Elisabetta.
I Conventi dei Frati Minori Conventuali
Secondo la tradizione, non priva di fondamento, il primo convento fu fondato dallo stesso san Francesco il Serafico sulla sponda sinistra del Tanaro, non molto distante dal borgo anticamente denominato di sant’Andrea, ora della Torretta, nel sito dove, fino ad alcuni decenni fa, si trovava una cascina, ora ristrutturata, detta appunto di san Francesco il vecchio. Oggi quella zona è occupata da alcuni impianti sportivi della città.
Dopo la morte di san Francesco, nel 1226, papa Innocenzo IV, con bolla del 1° maggio 1247 concedeva cospicui privilegi alla chiesa di questo convento, confermati ed accresciuti da papa Giovanni XXII, con bolla 20 gennaio 1331.
Nel 1331, l’esondazione del Tanaro rovinò l’oratorio e la maggior parte delle strutture conventuali.
Si racconta che presso il refettorio del monastero la notte di Natale del 1355 si radunarono i marchesi di Ceva, altri nobili della zona e rappresentanti dei comuni per concordare il piano per la cacciata dei milanesi, che dal 1351 occupavano la città senza esentarsi da soprusi e violenze nei confronti della popolazione. L’azione fu compiuta con successo nella notte tra il 9 ed il 10 di gennaio dell’anno successivo. Verso la fine del XIV secolo, a causa dei danni provocati dall’inondazione di alcuni decenni prima, delle guerre che in quei tempi si perpetuavano e dell’aria poco salubre, i Padri Francescani decisero di fondare un nuovo Convento ed una nuova Chiesa sulla sponda destra del torrente Cevetta, ai piedi della Rocca, su cui sarebbe poi stato costruito il forte.
Il 6 luglio 1584, il convento, la chiesa e molte case di Ceva furono danneggiate dall’esondazione del Cevetta. Nella relazione della visita pastorale di monsignor Angelo Peruzzi, vescovo di Sarsina, si legge: «Addì cinque maggio 1585, visitò il Prelato la Chiesa di S. Francesco fuori immediatamente della terra e del paese di Ceva vicino al fiume Cevetta. Vide che questa Chiesa era molto vasta e composta di tre navate. Le di lei pareti erano però molto deturpate dall’attaccatavi polvere e fango in seguito al naufragio sofferto per l’alluvione non mai sentita a memoria d’uomo, avvenuta nello scorso anno 1584, per l’impeto delle acque di Cevetta e di Tanaro che apersero i monumenti, ne strascinarono le ossa dei morti, ed esportaronsi persino le granaglie di cui era provvisto il Convento, dimodoché dovettero i padri Sacerdoti ridursi al numero di cinque, da otto che erano per l’addietro. Per l’ordinario due di questi Padri erano approvati per le confessioni o dal Vescovo d’Alba, o dal suo Vicario Foraneo di Ceva». La chiesa era stata colpita duramente, sprovvista di molti arredi per officiare la messa, gli altari non avevano più né croce né candelieri, banchi e confessionali erano danneggiati irreparabilmente, le finestre dell’altare laterale dedicato a san Bernardino divelte. L’edificio religioso era molto grande e oltre all’altare maggiore ve n’erano altri undici laterali dedicati a: 1° san Bernardino; 2° san Ludovico; 3° san Gerolamo, della famiglia Barberis, l’ancona di questo altare, definita satis pulcra, il signor Gerolamo Barberis la regalò nel 1850 alla nuova Cappella di San Bernardino in Soraglia.; 4° Annunziazione di Maria Vergine, della famiglia Sofìa; 5° sant’Anna ; 6° le stimmate di san Francesco, vi si celebrava una messa ebdomadaria legata da casa Gandolfi; 7° san Giovanni, della famiglia Chiavelli; 8° san Gioachino, della famiglia Sciarra; 9° san Nicola della famiglia Cadana; 10° della famiglia Giogia; 11° Concezione di Maria Vergine ove padre Bernardino Raineri perse la vita a causa dell’alluvione mentre stava celebrando la messa. In questa Chiesa erano venerate due insigni reliquie, una del santo legno della Croce e l’altra di due denti di san Biagio. La chiesa ed il convento furono ristrutturati all’inizio del 1700.
Questo monastero ebbe sempre un noviziato numeroso e monsignor Brizio, vescovo di Alba dal 1642 al 1665, lo lodò dichiarandolo ampio, magnifico e tenuto in grande onore per la probità dei religiosi che lo abitavano.
A seguito della soppressione degli ordini religiosi durante il governo napoleonico il convento fu adibito a sede delle scuole e di un collegio. Nel 1840, tutto l’edificio venne permutato con quello attiguo che ospitava l’ospedale, necessitando quest’ultimo di spazi più ampi per la sua attività. Durante i lavori di ampliamento e di ristrutturazione agli inizi degli anni settanta dell’Ottocento anche la chiesa venne trasformata in camere di degenza e servizi accessori. Inoltre alcuni altri locali a pianterreno vennero per parecchio tempo destinati a magazzini del sale. La struttura sanitaria mantenne qui la sua collocazione fino al 1990, quando si trasferì nel nuovo complesso in località san Bernardino, mantenendo sempre il sito. A testimonianza del primitivo e grandioso insieme architettonico conventuale non rimane oggi che parte del portale della vecchia chiesa, sormontato dalla lunetta affrescata ai primi del Quattrocento dal celebre artista Rufino di Alessandria che raffigura la Madonna con il Bambino con alla sua destra il beato Pietro da Lussemburgo ed alla sua sinistra sant’Antonio abate.
Il Convento di sant’Agostino
Nel 1473, padre Giovanni Battista Poggio (o Poggi), genovese, fondatore della congregazione degli Agostiniani eremiti sotto il titolo di Santa Maria della Consolazione di Genova, eresse la casa dei frati di sant’Agostino, su un’altura salubre ed amena sovrastante la sponda destra del Tanaro e separata dalla città di Ceva dalla piana cosiddetta del Broglio. I marchesi Ceva, Gerardo e Teodoro, contribuirono all’edificazione della struttura conventuale e della chiesa annessa cedendo ai monaci anche alcune terre per il loro sostentamento. L’insediamento era stato riconosciuto da papa Sisto IV, con la bolla datata 11 giugno 1472. In questa si leggeva che i suddetti marchesi Gerardo e Teodoro unitamente al comune di Ceva avevano dato ai padri eremitani di sant’Agostino: «Domum unam ad usum et habitationem fratrum, cum Ecclesia sub titolo S. Mariæ de gratia, campanile, campana, claustro, cimiterio et aliis necessariis officinis, etc».
La Chiesa di questo convento, sotto il titolo di Madonna delle Grazie (o Santa Maria delle Grazie o Nostra Signora delle Grazie), fu consacrata il 23 ottobre 1530 da monsignor Gioan Maria Biglioni, vicario del vescovo ed arciprete della cattedrale di Mondovì. Monsignor Peruzzi nella già citata visita pastorale del 1585, descrisse la chiesa di questo convento “satis ampia et decens”, ma mancante di una parte della volta che decretò si portasse a compimento. Annotò che sull’altare maggiore, davanti al Santissimo Sacramento, ardeva una lampada ad olio donata da monsignor Giovanni Ludovico Luigi Pallavicino, vescovo di Nizza. Al medesimo altare, il nobile Ludovico Giogia aveva legato un reddito. Gli altri altari erano dedicati all’Annunziata della famiglia Mina, a santa Caterina, all’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, alla Natività di Gesù Cristo, a san Luigi, a santo Stefano, a san Giovanni Battista, a san Giacomo e a san Nicola, pressoché tutti in buono stato, ma piuttosto disadorni. La chiesa era sprovvista di confessionali e il convento era privo di muro di cinta. Il visitatore apostolico decretò che si circondasse con mura il giardino ed il sito circostante, in maniera che fosse stabilita la clausura a norma delle prescrizioni pontificie.
Avendovi trovato rifugio in questo convento, forse con qualche falso pretesto, nel 1647 venne arrestato don Giovanni Gandolfo della congregazione sabauda dei Fogliensi (Ordine Cistercense). Costui era stato accusato di aver tramato contro la vita del duca Carlo Emanuele II, con la complicità di altri personaggi di corte. Tutti vennero processati e condannati alla pena capitale. Madama Reale (Cristina di Borbone), madre del duca, fu sempre riconoscente alla città di Ceva per la fedeltà dimostrata in occasione di questa congiura.
Per la scarsa presenza di religiosi, nel 1652 era stato disposto dalla Santa Sede un ordine di soppressione del convento, ma si ottenne che poco dopo fosse revocato. Con Regie Patenti, del 13 marzo 1798, ne venne però decretata la definitiva chiusura e messe in vendita le cascine di sua pertinenza. Negli ultimi anni infatti, la disciplina al suo interno si era abbandonata ad uno stato di rilassamento tale da non rendere indenne il convento medesimo dalla taccia di luogo di malcostume e scandalo. Più tardi tutti gli edifici, compresa la chiesa e qualche fondo adiacente, furono venduti dal governo francese ai signori Pietro Silvano e Pietro Boasso. A quest’ultimo toccò anche parte della chiesa e del convento, che furono distrutti per trarre profitto dai materiali.
Il consiglio municipale di Ceva, avendone fatto acquisto dal signor Boasso, in quell’area nel 1809 trasferì il Cimitero, fino ad allora ubicato al fondo del borgo Sottano nei pressi del ponte della Catalana.
Il padre agostiniano Giovanni Francesco Franco, di Nizza, per l’affezione che aveva alla sua religione e per essere stato, forse suo malgrado, uno degli ultimi che abitarono il cenobio, fece acquisto di una porzione di questo, attigua al cimitero e sopra ad un sotterraneo, che doveva servirgli da sepolcro, fece erigere una piccola cappella. Vi fu sepolto il 3 ottobre 1825. Padre Franco lasciò ottima fama di sé presso i cittadini di Ceva quale insegnante di retorica. Egli fu precettore di Carlo Marenco e del notaio Gìansecondo Rovea, che lasciò erede d’ogni suo avere. Il 4 gennaio 1843, la Compagnia del Suffragio acquistò dal notaio Rovea quel che restava del convento che, inglobando la cappella del frate Franco, fu trasformato nell’attuale chiesa mortuaria sotto il titolo di sant’Agostino, a memoria della passata struttura monastica.
Il Convento dei Frati Minori Cappuccini
L’unico convento che era rimasto attivo fino ai giorni nostri è il convento dei Frati Minori Cappuccini. Purtroppo nel 2012 per essersi ridotto il numero dei frati ad una sola unità è stato chiuso, mantenendo soltanto la celebrazione della messa domenicale nella sua chiesa. Il complesso monastico è situato sulla sponda destra del Cevetta, al borgo Luna o borgo Doria, una volta detto borgo di Santa Croce o borgo San Giovanni, per due chiese che vi si trovavano sotto questi titoli. La sua fondazione si ebbe grazie a un lascito della nobile dama Eleonora della Rovere vedova di Alfonso Spinola marchese di Garessio e Farigliano, la quale con istromento del 4 settembre 1577, acquistò duecentocinquanta tavole di terra e ne fece dono ai padri cappuccini della provincia monastica di Genova che vi fabbricarono la loro chiesa e il convento.
Nel 1582, grazie anche alle oblazioni dei fedeli e all’intervento dell’amministrazione comunale si portarono a compimento i lavori. L’opera dei frati incontrò subito l’apprezzamento della popolazione e grazie alla buona preparazione in campo teologico fu loro affidata la funzione di predicatori nei periodi dell’Avvento e della Quaresima. Altrettanto encomiabile fu la loro attività di assistenza spirituale e materiale in case e lazzaretti, durante le epidemie di peste che infestarono la città ed i dintorni nelle prime decadi del Seicento. La superficie dell’area di pertinenza della struttura conventuale si ampliò ulteriormente e la recinzione fu estesa verso oriente nel 1643 quando don Vitichindo di Savoia fece dono ai padri di un grosso appezzamento di terreno situato nelle vicinanze. All’epoca della fondazione i religiosi erano otto, ma il loro numero si ridusse per qualche tempo in quanto, nel 1612, Carlo Emanuele I sollecitò l’allontanamento del padre guardiano Gabriele da Quiliano, ordinando che non fossero più accolti nel convento frati che provenissero dalla Liguria, a causa di evidenti dissidi politici che correvano in quei tempi tra il ducato di Savoia e la repubblica di Genova.
La prima fabbrica della chiesa dopo un secolo di esistenza minacciava rovina, come pure parte del chiostro e dell’abitazione dei frati. Nel 1709, si decise pertanto di abbattere le strutture fatiscenti e pericolanti provvedendo a radicali opere di manutenzione e ricostruzione. Si predispose una fornace nel recinto della clausura e nel 1712 le opere furono portate a compimento. Non disponendo i padri di acqua per irrigare i loro orti, campi e giardini, nell’estate del 1724, in poco più di un mese provvidero alla costruzione di un acquedotto che andava ad attingere l’acqua dalla ripa della zona detta dell’Ostero alla sinistra del Cevetta, per un tratto di venti e più trabucchi. Le famiglie Bombelli, Roggero e Bellone cedettero gratis il passaggio e la proprietà della quantità d’acqua necessaria per l’irrigazione che proveniva dal torrente Recurezzo. Nel 1744, un’esondazione del Cevetta rovinò un pilastro dell’acquedotto e due arcate del medesimo, trascinando via anche il ponte di san Giovanni ed, alcune case del borgo della Luna. Nel 1746, si riedificò il pilastro rovinato e l’arco che sovrastava il Cevetta fu allargato in modo d’aver sei trabucchi ed un piede di luce. Il convento mantenne la sua efficienza, con un cospicuo numero di religiosi che, a volte, raggiungeva quasi le due decine, fino al 1802, quando, a causa dell’occupazione francese effetto dell’invasione del 1796, come accadde a tutti gli altri ordini religiosi, venne soppresso e nei suoi locali trovò ospitalità l’Orfanotrofio femminile fino al 1816.
Tramontata l’era napoleonica, il 18 agosto 1816 poterono ritornare i padri cappuccini, che, oltre alle consuete occupazioni in ambito religioso e spirituale, si distinsero nuovamente negli interventi assistenziali in occasione dei due contagi di colera che colpirono la città nel 1835 e nel 1855, durante i quali assunsero la direzione del lazzaretto. Non tardò però una nuova drastica presa di posizione dell’autorità dello stato nei confronti degli ordini religiosi e, a seguito della legge Siccardi del 1866, vi fu la confisca di tutti i beni ecclesiastici. La chiesa e tutti gli altri edifici del monastero vennero venduti a privati, che disfattisi di tutti gli arredi sacri, mobili e suppellettili, biblioteche e forse di alcune pregiate tele del settecento, trasformarono i locali in magazzini e cantine. Si salvò la preziosa pala d’altare, attribuita da alcuni al pittore saviglianese Molineri, rappresentante la Deposizione, munifico dono della prima benefattrice del cenobio Eleonora della Rovere, che fu acquisita dalla parrocchia di Ceva. Nel 1903, grazie soprattutto all’intervento del cebano padre Eugenio Michelotti, della Congregazione dei Filippini, coadiuvato dall’allora arciprete del Duomo il teologo Francesco Mauro e con il sostegno economico di molti cittadini cevesi, tra cui si distinsero il signor Giovanni Pelleri e la signora Angiolina Dho, vennero riscattati tutti i fabbricati del convento, chiesa compresa. Vi poterono così far ritorno i frati, prima una piccola comunità esule da Lione poi finalmente nel 1912 i Cappuccini piemontesi che con rinnovata alacrità ripresero il loro prezioso ministero.
Importanti restauri e ristrutturazioni erano stati apportati ed altre opere di abbellimento si realizzarono negli anni immediatamente successivi. Si costruì il nuovo campanile. Si rinnovò la facciata della chiesa con affreschi a chiaroscuro del pittore Parachini, si abbellì il sagrato antistante con la riproduzione della Grotta di Lourdes e pure l’interno con la pala d’altare del Rollini e gli affreschi del Crida.
Dalla riapertura del monastero l’opera spirituale dei padri Cappuccini accompagnò con mariano fervore tutti i momenti lieti e meno lieti della comunità cebana esattamente per un secolo fino alla definitiva chiusura nell’estate del 2012.
Il Monastero della Visitazione
Nel 1666, una suora di nome Lucia da Parigi fondò a Ceva, il monastero della Visitazione sotto la regola che san Francesco di Sales diede a santa Giovanna Francesca Frémiot di Chantal, raccogliendo attorno a sé diverse vedove e fanciulle della città, che presero il sacro velo delle cosiddette Visitandine. Questo era situato al fondo del borgo Inferiore, oggi borgo Sottano, presso la torre dei Guelfi, andata distrutta, vicino al ponte della Catalana. La solenne cerimonia di apertura avvenne il 7 luglio 1668 presieduta da don Sigismondo Roggieri canonico della collegiata di Ceva. Nel 1676, la duchessa Maria Giovanna Battista di Savoia, Madama reale, vedova di Carlo Emmanuele II, ordinò al prefetto di Ceva di far perfezionare la cinta del giardino del monastero, affinché fosse garantita la quiete claustrale del medesimo. La madre Francesca Antonia Filippone di Torino, nel testamento del 27 marzo 1706, istituì erede universale questo monastero di cui ella faceva parte. Così pure fece la madre Costanza Mondella con il testamento del 6 aprile 1746. Nella relazione della visita pastorale di monsignor Vasco, nel 1728, questa religiosa istituzione era chiamata Congregazione, ossia conservatorio delle oblate sotto il titolo della Visitazione di Maria Vergine.
Nel 1765, dopo la morte di suor Maria degli Angioli di Oneglia, vedova del conte Riccardi, il numero delle monache si ridusse al punto che, per sovrana disposizione, il monastero venne soppresso e le proprietà devolute al Regio Demanio. Il re Vittorio Amedeo III di Savoia, a sua volta, fece dono delle stesse all’ospedale degli infermi della città. Sulle rovine del convento venne in seguito edificato un caseggiato, appartenuto alla famiglia Basiglio, nelle cui cantine, erano ancora visibili tracce della cappella intitolata a San Francesco di Sales di pertinenza della vecchia struttura monastica, fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, quando fu abbattuto per far posto all’odierno grande condominio.