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Associazione Ceva nella Storia - Chiese non più esistenti già site nel territorio della Parrocchia di Ceva (seconda parte)

Chiese non più esistenti già site nel territorio della Parrocchia di Ceva (seconda parte)     Torna all'indice


Chiesa di Santa Maria del Castello (Sancta Maria de Castro)

Santa Maria del Castello, con funzione di chiesa parrocchiale, si trovava sul poggio comunemente conosciuto come Castello, sito nel quale ora vi sono le residenze signorili dei marchesi Pallavicino dette Palazzo Rosso e Palazzo Bianco, costruite ed ampliate attraverso varie fasi edilizie tra il XIV ed il XVI secolo. Fin dal XII secolo, gli eredi di Bonifacio del Vasto, discendenti di Aleramo, avevano fissato in questo luogo la loro dimora, costruendola sulla parte sommitale dell’altura posta nell’angolo sud-est della medesima, dando di fatto inizio alla stirpe marchionale dei Ceva.
Stabilire con esattezza l’ubicazione della chiesa a quel tempo non è facile, poiché l’area dell’altipiano era più ampia di quella che appare tuttora, in quanto nel corso dei secoli fu sottoposta ad interventi di riduzione di superficie, come ad esempio lo sbancamento in occasione della fabbricazione dell’abside del Duomo o recentemente l’innalzamento dell’argine sulla sponda destra del Tanaro, con il conseguente ripristino e consolidamento dell’intera scarpata, costituita da marna di consistenza scistosa che, esposta alle intemperie, sovente ha presentato sfaldamento e franosità.
La teoria esposta da padre Arcangelo Ferro si dimostra totalmente e sorprendentemente priva di fondamento; questi, prendendo spunto dalla tavola raffigurante Ceva del Theatrum Sabaudiae, edito nel 1682, afferma che in quel tempo Santa Maria de Castro fungeva ancora da parrocchiale ed era sita in un’area alla sinistra dell’attuale Duomo con la facciata rivolta sull’odierna via Sauli. Nell’evidenziare però che non si riscontrava ancora traccia del nuovo Duomo, che a quella data avrebbe già dovuto essere stato costruito, almeno nella sua prima parte, il frate cappuccino porta a giustificazione il fatto che i rilievi per la redazione della tavola medesima sarebbero stati desunti da un disegno di almeno sessant’anni prima, cioè verso il 1620. Si palesa qui una serie di disinformazioni, errate valutazioni e dimenticanze: è assodato che l’incisione che riproduce Ceva Civitas Antiqua sul Theatrum è ricavata sulla base di un disegno di Giovanni Tommaso Borgonio, realizzato nel 1675; non viene considerato, forse perché sconosciuto al Ferro, uno schizzo panoramico della città, conservato presso l’Archivio di Stato di Torino (Fondo Architettura Militare, vol. I, f. 59), databile intorno al 1553, sul quale non è riportato il nome dell’autore, ma che può essere attribuito all’architetto cremonese Benedetto Ala, che colloca la chiesa in altro luogo; è presa in esame, ma mal interpretata, la relazione della visita pastorale del 3 marzo 1585 del vescovo di Sarsina, monsignor Angelo Peruzzi, nella quale l’edificio si dice ubicato “...in un sito solitario, lontano dalle abitazioni...”; nessuna traccia di esso compare sul dipinto ad olio di autore ignoto conservato in municipio, eseguito all’incirca nella metà del Seicento, né sulla veduta di Ceva di Francesco Toscano, realizzata verso il 1662; non viene tenuto conto che Gio’ Giacinto Andrà nelle sue Notizie Storiche della Città di Ceva, pubblicate nel 1796, segnala che l’officiatura di Santa Maria di Castro era terminata nel 1645; risulta non noto un cartolare municipale del maggio 1636, dal quale si evince che il vescovo di Alba, Giovanni Francesco Gandolfo, aveva autorizzato fin da quell’anno, in occasione della sua visita pastorale, la parziale agibilità del nuovo Duomo, per la cui costruzione pare fossero stati utilizzati anche materiali provenienti dall’abbattimento della vecchia parrocchiale.
Si può invece essere d’accordo con padre Ferro quando asserisce che Santa Maria del Castello era a tre navate, con quella centrale rialzata rispetto alle due laterali, tanto da rimandare ad uno stile romanico o lombardo-romanico ed essere paragonabile nella conformazione all’antica parrocchiale di San Giovanni Battista di Sale San Giovanni, considerata da alcuni la chiesa romanica meglio conservata della diocesi monregalese. Andando ad esaminare il sopracitato disegno, reputato opera di Benedetto Ala, si possono trarre, non senza un po’ di presupposizione, le medesime conclusioni stilistiche proposte da padre Arcangelo, senza sapere comunque come egli possa aver formulato le sue ipotesi architettoniche avendo dimostrato di non essere a conoscenza del disegno stesso. Questa veduta è realizzata con grezza approssimazione; l’autore probabilmente volle rimarcare solo la presenza di alcune strutture importanti ed agglomerati abitativi essenziali (la chiesa, il castello aleramico, il convento francescano, il Forte, la platea, il borgo inferiore) piuttosto che riprodurne con assoluta esattezza ogni elemento costruttivo, il posizionamento, il preciso orientamento rispetto ai punti cardinali. Tuttavia, essendo l’unica rappresentazione grafica conosciuta in cui compare delineata la chiesa, diventa utile per determinarne, con qualche prudenziale riserva, la configurazione esteriore e la collocazione sul pianoro. Essa doveva essere abbastanza grande, tanto da contenere, oltre all’altare maggiore nella porzione del presbiterio, altri quattro altari o cappelle per ogni lato; si innalzava ad occidente del castello aleramico, più vicina al sottostante ponte della Catalana, probabilmente con la facciata rivolta ad ovest e con la parte longitudinale parallela al corso del Tanaro. Sul lato destro si nota addossata alla chiesa una costruzione più bassa, probabilmente la Casa del Clero della chiesa, citata dall’Andrà nel suo scritto, sulle cui rovine venne poi costruito il Palazzo Bianco, occupando anche parte della superficie adiacente.
Verosimilmente gli aleramidi, al loro giungere a Ceva, trovarono edificato un luogo di culto, che non tardarono ad elevare in Arcipretura per garantire, oltre al decoro per la loro residenza, anche il servizio religioso a tutta quella gente che, ancora si trovava ad abitare sull’altura. Non era pensabile che il potere marchionale, che si stava imponendo sul territorio, non cercasse di instaurare anche una corrispondente supremazia in campo religioso, principio estremamente efficace che, al pari di quello feudale, serviva per far valere e mantenere il dominio sulle popolazioni soggette. A tal fine un buon numero di sacerdoti furono chiamati a servizio dell’Arcipretura, nel cui ambito vennero poco dopo a crearsi i primi canonicati, dando origine alla Collegiata, detentrice di rendite ed assegnataria di cospicui lasciti, benefici, decime e prebende.
Il primo archipresbiter di cui si ha notizia fu Amalberto, che figurava presente nel 1188 alla stesura di una scrittura per delle elargizioni in favore della Certosa di Casotto da parte del marchese Guglielmo I, nipote di Bonifacio del Vasto. Quest’ultimo però, alcuni decenni prima, precisamente nel 1111, aveva già fatto un altro atto di donazione nel castello di Ceva (...actum in castro Ceve feliciter...) alla presenza di “chierici e laici”; questo può far intendere che già a quell’epoca fosse attivo intorno alla bicocca un apparato clericale al servizio di una chiesa. Invece il primo canonico che compare su un documento certo fu Taddeo di Montaldo, in qualità di testimone per uno strumento di pace del 25 giugno 1297 tra il marchese di Ceva Giorgio II il Nano ed il Monteregale (...dominus Thadeo de Monte alto, canonico cevensi...).
Per quanto riguarda Santa Maria de Castro la più vecchia citazione risale all’ottobre 1205 ed è richiamata da vari storici (Andrà, Manzoni, Barelli, Ferro, Aldo Martini), ma riportata per primo dall’abate Gasparo Sclavo nel 1786, che quasi certamente la desunse dal cartario della Chiesa astense. Questa menzione fa riferimento a Bonifacio I, vescovo di Asti, che “... nella casa de’ canonici di s. Maria de castro...” stipulò una donazione alla chiesa dei certosini di Casotto. Un’altra notizia, riportata soltanto dal professor Giovanni Manzoni nel 1911 e, ribadita da Aldo Martini nel 1983, racconta di una lite per il possesso di alcune terre tra Enrico del Carretto e Manfredo III di Saluzzo conciliata da Manuele di Ceva, sotto il portico di Santa Maria del Castello il 2 ottobre 1227, presenti anche altri rappresentanti della nobiltà locale come Giacomo di Bagnasco, Robaldo di Garessio, Rolando di Ceva, oltre a Ottone, marchese di Clavesana e Guglielmo, conte di Ventimiglia. Il documento autentico di più vecchia data oggi reperibile riferito a questa chiesa è una Recensio jurium parrochialium Ecclesiae Sanctae Mariae de castro Cevae (Enumerazione dei diritti parrocchiali della Chiesa di Santa Maria del Castello di Ceva) redatta nella canonica di Ceva il 27 maggio 1498 dal notaio Paolo Emilio Carena, conservato presso l’archivio parrocchiale di Ceva, nella quale viene resa in forma pubblica una serie di provvigioni ed obblighi, dovuti a vario titolo alla chiesa, con i nominativi di coloro che erano tenuti ad assolverli.
Alla luce di quanto sopra si può affermare che la chiesa svolse la sua funzione di arcipretura per oltre quattro secoli e mezzo, accogliendo nelle varie epoche illustri personalità ecclesiastiche, politiche e militari.
Più legata ad una leggenda sembra essere la presenza intorno al 1220 di san Francesco d’Assisi, mentre è data per certa quella di san Bernardino da Siena che predicò ai cevesi durante il suo peregrinare in Piemonte nel 1418. Qui si fermò, almeno una dozzina di volte, Emanuele Filiberto di Savoia nella seconda metà del XVI secolo, tra cui il giorno di Natale del 1577. Il 6 luglio 1585 vi furono solennemente ricevuti durante il loro viaggio nuziale da Saragozza a Torino il duca Carlo Emanuele I e l’infanta di Spagna Caterina d’Austria, figlia di Filippo II. Nell’ottobre del medesimo anno il cardinale Alberto d’Austria, nipote di Carlo V, che sarà poi arcivescovo di Toledo ed ancora nel giugno del 1594 lo stesso re di Spagna Filippo II insieme al cardinale Pietro di Gondi, arcivescovo di Parigi.
La descrizione interna della chiesa e la sua condizione strutturale nella seconda metà del XVI secolo pervengono dalle informazioni che riporta l’arciprete Giovanni Olivero nelle sue Memorie Storiche della Città e Marchesato di Ceva. Queste erano attinte dalla corposa relazione della visita ispettiva del vescovo Angelo Peruzzi, il 3 marzo 1585, giunta inspiegabile e inattesa, direttamente su disposizione della Curia Romana, senza il coinvolgimento di quella albese, da cui Ceva dipendeva e come avveniva di consueto. Il sopralluogo del Peruzzi fu particolarmente minuzioso su tutto l’ambito religioso cittadino, passando in rassegna i conventi, ogni edificio riservato al culto, il funzionamento della Collegiata e della parrocchiale. In quel tempo il Capitolo dei presbiteri era composto dall’Arciprete (Roberto Ceva, ma in un’altra parte del suo testo l’Olivero indica quale arciprete in quell’anno Alessandro della stessa casata marchionale), da quattro canonici con reddito (Antonio Giogia, Giovanni Rizio, Bernardino Rosso o Rossi, Gasparo Chiavelli) e da un vicario foraneo con reddito (Gerolamo Barberis). Non mancò il vescovo di adottare atteggiamenti di severità e biasimo verso l’amministrazione civica, evidenziando il piuttosto inconsistente interesse da parte del vecchio potere marchionale. La chiesa era impropriamente collocata in sito appartato, di difficoltosa accessibilità da parte della popolazione, in completo stato di noncuranza. L’interno si presentava con le pareti screpolate e disordinatamente ingombre di armi gentilizie riferite a coloro, soprattutto appartenenti a varie generazioni di notabili della dinastia dei Ceva, che erano stati tumulati nei sepolcri sotterranei, alcuni mal chiusi, dai quali esalava un ripugnante ed antigienico miasma. L’ambiente era buio, con le finestre senza inferriate, privo di volte, ad eccezione della parte presbiteriale; il pavimento era parzialmente dissestato, non vi erano confessionali e la sacrestia minacciava rovina. Oltre a quello maggiore, come anzidetto, si contavano altri otto altari: di san Michele, dei santi Crispino e Crispiniano di spettanza della corporazione dei calzolai; dei santi Agata e Biagio e prima di San Nicola da Tolentino; di Santo Stefano di appartenenza della famiglia Franco; di san Vincenzo; di santa Caterina; dei santi Giovanni Battista e Antonio della famiglia Gagliardi; dei santi Giacomo e Cristoforo patronato dei marchesi di Ceva. Tutti erano però sprovvisti delle necessarie suppellettili. Il prelato sarsinate denunciò anche le deplorevoli condizioni di abbandono del cimitero adiacente all’edificio, senza la consueta croce centrale, mancante di idonea recinzione con la conseguenza che i cadaveri potevano essere facili al dissotterramento da parte di animali randagi. Il visitatore apostolico non poté esimersi dall’intimare al municipio di provvedere nell’immediato alle riparazioni più urgenti, compresa la cinta del camposanto, sotto pena di sanzione pecuniaria e scomunica. Nel contempo sottolineò la necessità di pensare alla costruzione di un nuovo tempio più consono alle esigenze dei fedeli, che in quel tempo raggiungevano le quattromila unità, in luogo più comodo da raggiungere, pur non nascondendosi la realtà della generale miseria imperante, accresciuta costantemente dalle imposizioni tributarie ducali, dagli impegni e dalla preoccupazione dell’autorità amministrativa per il riassetto della Città dopo il disastro alluvionale dell’anno precedente.
Ciononostante dopo vari tentennamenti, voti e promesse solenni durante i momenti di scoramento e pericolo, come la peste di fine Cinquecento, dissidi tra l’autorità civica ed ecclesiastica, riluttanze ed esortazioni, finalmente verso i primi anni del Seicento ebbero inizio i lavori per la costruzione del nuovo Duomo nell’attuale sito. Dopo varie interruzioni, per l’insorgere di nuovi e più tremendi flagelli epidemici, per il perdurare di guerre tra spagnoli e francesi, per il destinare risorse all’ampliamento del Forte sorto sulla Rocca, si giunse al compimento dell’opera intorno alla metà del XVII secolo e sarebbe poi stata ulteriormente ampliata in quello successivo. Ciò determinò il definitivo abbandono della vecchia parrocchiale ed il suo totale abbattimento. Qualcuno alcuni decenni fa asseriva che se ne intravedevano ancora miseri resti nelle adiacenze del palazzo Bianco. Allo stato attuale queste paiono supposizioni vaghe. Forse, ma neppure in questo caso lo sostengono prove inconfutabili, tutto quel che resta della vecchia Santa Maria del Castello è un bassorilievo in arenaria, murato alla base del campanile del Duomo, che raffigura, in stile gotico, la Vergine Incoronata con ai lati un personaggio in atteggiamento orante e lo stemma dei Ceva. Inoltre nella cappella dell’Addolorata è conservata una scultura lignea di santa Lucia, anch’essa di impronta tardo-gotica, che potrebbe essere un reperto proveniente dall’antica chiesa.

Chiesa di Santa Maria di Piazza (Sancta Maria de Platea)

Lo storico cebano Aldo Martini ebbe a scrivere, nel 1983, dell’esistenza di questa chiesa collocandola ove sorge l’edificio del teatro Marenco. La supponeva di grosse dimensioni perché doveva essere a servizio dei fedeli abitanti nell’agglomerato urbano (praticamente l’attuale centro storico) che, secondo lui, già nei primi secoli del basso medioevo, si estendeva tra la riva dell’altopiano di Soraglia e l’argine del Cevetta. Mentre quelli che dimoravano nel borgo, altrettanto popoloso, sviluppatosi più in alto, nella cittadella attorno al castello aleramico, usufruivano della chiesa di Santa Maria di Castro. Al presente non sono conosciute prove documentali che possano avvalorare questa ipotesi. Ciononostante, alcune testimonianze, neppure troppo vaghe, si possono reperire circa la sussistenza in quella zona, denominata in vernacolo cebano Rochére, di un edificio dedicato al culto. Può essere che alle congetture del maestro Martini avesse dato spunto il ritrovamento, durante i lavori di ristrutturazione del teatro nella metà degli anni Settanta del XX secolo, della base di una colonna circolare di conglomerato e laterizio attribuibile a quell’epoca.
Data la notevole approssimazione grafica con cui viene rappresentata la città, non può fornire specifiche conferme il disegno a penna ed acquerello di autore ignoto, risalente alla metà del XVI secolo e conservato presso l’Archivio di Stato di Torino (Fondo Architettura Militare foglio 59), nel quale si notano tra le case delineate in basso alcuni edifici religiosi. Piuttosto alcune indicazioni più affidabili circa la presenza in quel luogo di una chiesa si possono dedurre dall’esame del grande dipinto ad olio esposto in un salone del municipio riconducibile alla metà del Seicento, anche questo di artista sconosciuto. Infatti proprio in quel punto emerge tra i tetti un campanile. In contrapposizione, però, la tavola del Theatrum Sabaudiae, datata 1682, quindi poco più di un paio di decenni più tardi, non ne riporta traccia. Nel 1796, Gio’ Giacinto Andrà, nel suo breve trattato Notizie storiche della Città di Ceva, parla di alcuni “istromenti” stipulati in Sancta Maria de platea nei secoli XV e XVI. Un ultimo riferimento è dato da alcune tracce che si scorgono sull’affaccio su via Pallavicino, che sono emerse dopo gli ultimi interventi di restauro e fanno intuire la preesistente presenza di una chiesa di non grandi dimensioni.
Particolare rilevante tuttavia è che di una chiesa o cappella li esistente non venne mai fatto cenno nelle varie relazioni delle visite episcopali che si possono reperire negli archivi, che datano dalla metà del Cinquecento in poi, segno che la sua officiatura era già comunque terminata tempo prima.

Chiesa del Corpo del Signore (o di Santa Elisabetta)

Di questa piccola chiesa, in base alla descrizione fattane su un documento riferito alla visita pastorale del vescovo di Alba monsignor Giuseppe Maria Langosco di Stroppiana del 1788, si sa che misurava dieci metri in lunghezza e cinque in larghezza ed era munita di coro e di un piccolo campanile. Qui ebbe la sua vecchia sede, prima di trasferirsi nella nuova chiesa parrocchiale del Duomo, la compagnia del Santissimo Sacramento. Essa era pure conosciuta come chiesa di Santa Elisabetta, in quanto fungeva anche da oratorio della compagnia delle Umiliate, posta sotto la tutela di santa Elisabetta d’Ungheria. L’edificio era ubicato sulla piazza Maggiore fin dalla metà del XVI secolo, nell’area in cui ora sorge il Palazzo di Città.
La chiesa veniva già menzionata negli atti relativi alla visita pastorale di monsignor Peruzzi del 1585 e proprio in quell’occasione, sorse, relativamente ad essa, una specie di contenzioso tra l’Amministrazione civica ed il vescovo visitatore. La controversia era riferita alla richiesta di ampliamento della struttura al fine di potervi mantenere il Santissimo Sacramento, senza che la popolazione dovesse accedere con gli ovvi disagi, soprattutto nella brutta stagione, alla Collegiata posta in luogo incomodo. Alla spesa si sarebbe provveduto con proventi della compagnia del Santissimo Sacramento. Questa possibilità fu negata dal prelato. Egli, inoltre, venuto a conoscenza che il sindaco si considerava priore nato di detta compagnia senza dipendere dall’autorità ecclesiastica, stabilì che per ricoprire questa carica si provvedesse annualmente con l’elezione di un nuovo priore, dandone conto al vescovo di Alba o al suo vicario foraneo in Ceva, poiché l’amministrazione comunale non aveva avuto modo di presentare titolo che conferisse al sindaco tale prerogativa.
Verso la fine del XVIII secolo l’edificio si presentava in condizioni di accentuata precarietà strutturale tant’è che venne abbattuto e le consorelle Umiliate trovarono provvisoria ospitalità nel tempio dell’arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina da pochi decenni edificato sulla medesima piazza, in attesa del previsto rifacimento del loro oratorio sullo stesso sito. Si erano già gettate le fondamenta e si stava procedendo con gli altri lavori quando, ai primi dell’Ottocento, i francesi, nel frattempo, dopo l’invasione del 1796, insediatisi nell’amministrazione dei nostri territori, bloccarono l’opera imponendo nel medesimo sito la creazione di un’area mercatale e la costruzione del palazzo dell’amministrazione civica.

Chiesa di Santa Caterina (in Valgelata)

Secondo un’altra ipotesi formulata dal maestro Martini, sempre in relazione alla ricerca di edifici di culto a servizio dei fedeli dimoranti nel nucleo sottostante l’altura del Castello, antecedentemente al XII secolo, avrebbe potuto esistere, all’incrocio delle attuali via Sauli e via Derossi, all’inizio della contrada Valgelata ed adiacente al vicolo Sartoris, una chiesa sotto il titolo di Santa Caterina. Ad avvalorare la sua supposizione il medesimo, in una sua pubblicazione del 1982, cita alcuni documenti dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina del 1699, di cui si ignora però l’attuale collocazione archivistica. Da questi si sarebbe desunta la richiesta dell’associazione stessa, inoltrata al vescovo di Alba, per l’autorizzazione alla vendita di un casazzo di proprietà, che l’autore descrive come «… ampio fabbricato di una chiesa minacciante rovina, sita dalla parte della porta del Tanaro ... occupato ad uso magazzeno …» insieme ad una piccola casa attigua e ad un appezzamento di terreno gerbido in località Soraglia. Il ricavato della cessione sarebbe stato impiegato per la costruzione della nuova chiesa di Santa Maria e Santa Caterina sulla piazza Maggiore della Città.
Un’altra testimonianza può essere riferita al ritrovamento sul posto, durante interventi di scavo, di un basamento di arenaria, sostegno di una colonna del diametro di 40 cm, che viene indicato come “elemento probabile a ornamento della chiesa antica”. Stando a quanto affermato dal Martini, parte del casazzo e della piccola casa dovrebbero essere ancor oggi esistenti anche se, nel corso dei secoli, tutt’intorno si sono susseguite continue ristrutturazioni e nuove costruzioni, che possono aver quasi totalmente inglobato i due edifici, occultando le tracce del loro passato utilizzo come strutture dedicate al culto. Inoltre sul fabbricato d’angolo nella parte prospiciente via Sauli pare si notassero, incassati nella parete, altri elementi decorativi verosimilmente di pertinenza della vecchia chiesa. Al presente, forse per effetto di recenti interventi di nuova intonacatura e tinteggiatura, non si scorge più nulla di tutto ciò.

Chiesa dei Cavalieri di Malta

Per una serie di incongruenze che emergono dai testi del canonico Olivero e di padre Giuseppe da Bra, non pochi dubbi si nutrono sull’effettiva esistenza di questa chiesa che pare dovesse essere ubicata nei pressi della vecchia porta del Brolio. Infatti altri storici del passato, che pur hanno molto dissertato intorno a chiese e cappelle, non ne fanno cenno, forse perché presi dalle stesse perplessità. Don Olivero scrive che ai cavalieri di Malta era affidata la difesa di questa porta «… contro le aggressioni dei Saraceni che infestavano la Valle del Tanaro…». Storicamente è accertato che i Saraceni, per più di ottant’anni protagonisti di devastazioni e saccheggi in tutti i territori del Piemonte sud occidentale e delle zone francesi confinanti, definitivamente sconfitti da una coalizione di nobili provenzali, se ne andarono nel 973. Le prime presenze dei Cavalieri di Malta in Piemonte, tra l’altro principalmente operanti nel campo assistenziale ed ospedaliero, si registrarono invece verso la seconda decade del XII secolo, cioè quasi centocinquant’anni più tardi. In ogni caso l’idea che al tempo delle scorribande saracene vi fosse una porta del Brolio da difendere è assolutamente improponibile. Infatti, oltre agli antichi riferimenti al caseus (formaggio) di Plinio, alle cevas (mucche) di Columella ed alla lapide rinvenuta a Monesiglio e citata dal Mommsen nel suo Corpus Inscriptionum Latinarum del 1877, la prima menzione che si fa di Ceva in un documento certo e conosciuto è dell’anno 1064 (molto più vago ed incerto è il riferimento ai “mansi in Seva” che sarebbero stati ceduti al monastero delle monache di Caramagna del 1028). L’arciprete cebano non parla comunque della presenza di alcuna chiesa in quel sito. Il padre francescano invece non entra nel merito delle questioni saracene, ma con più attendibilità in termini epocali, afferma che l’Ordine dei cavalieri di Rodi, detti poi di Malta, intorno al Cinquecento era presente in Ceva per l’amministrazione di alcuni suoi beni posseduti nelle terre del marchesato. Asserisce inoltre che aveva una sua “chiesina” pressappoco nel luogo indicato da don Olivero, in un edificio di forma rotonda, oggi trasformato in abitazioni private, i cui muri perimetrali sarebbero però quelli dell’originaria piccola chiesa. Non si sa in base a quali congetture l’autore di Ceva in tutti i tempi possa sostenere tutto questo, pur non dando per escluso il presupposto di possedimenti in loco da parte dell’associazione cavalleresca, che pare avesse anche componenti del casato marchionale tra i suoi adepti. In effetti, adiacenti allo spazio occupato dalla vecchia porta del Brolio, uno per parte, vi sono due edifici il cui muro perimetrale ha struttura convessa. La costruzione di uno di questi è però di almeno un paio di secoli successiva al tempo della presunta presenza sul posto dei Cavalieri di Malta. L’altro avrebbe potuto già essere eretto, ma non evidenzia nulla che possa richiamare la preesistenza di un luogo di culto. Nel medesimo periodo già erano abbastanza frequenti le visite episcopali alla parrocchia, ma il fatto che in nessuna delle relative relazioni conosciute compaia citata questa chiesa, non aiuta a prendere per completamente affidabili le indicazioni di padre Giuseppe da Bra.

Chiesa del Salvatore

Secondo l’Olivero si trovava a ridosso della cinta muraria presso la porta del Brolio e fu completamente distrutta dall’inondazione del Tanaro del 13 gennaio 1610. Anche questa chiesa non fu mai menzionata nelle note dei visitatori apostolici dell’epoca. Stante la sua collocazione si potrebbe pensare ad una qualche attinenza con la precedente dei Cavalieri di Malta, magari era la stessa, padre Giuseppe da Bra infatti nell’affermare l’esistenza di quest’ultima non ne aveva reso noto il titolo. Si riconosce però che queste sono ipotesi di estrema vaghezza.

Chiesa del convento dei Padri Francescani

Questa fu sicuramente per lungo tempo, fino al completamento della costruzione del nuovo Duomo, la chiesa più capiente della Città. La sua edificazione risale ai primi anni del Quattrocento quando, a causa dell’inondazione del Tanaro del 1331 ed a probabili altre meno disastrose nei decenni successivi, di cui non è stata tramandata precisa memoria, i minori conventuali di san Francesco decisero di abbandonare il loro vecchio cenobio in località Nosalini per erigerne un altro in luogo più salubre ed anche più sicuro dal passaggio di eserciti e da scorrerie di soldataglia che abbondavano in quel tempo a causa delle continue guerre. Il sito prescelto fu al di là del Cevetta subito fuori della cinta muraria ai piedi della Rocca sulla quale sarebbe poi stato costruito il Forte. Alcuni decenni più tardi anche le confraternite di santa Maria e di santa Caterina eressero in quella zona i loro due oratori.
Si raccontava che nella chiesa di san Francesco fosse riservata particolare venerazione per due preziose reliquie: un pezzo del legno della croce di Cristo e due denti di san Biagio, delle quali è ormai perso da secoli ogni indizio. La chiesa era a tre navate. Oltre alla possibilità di constatarne la conformazione sui vari disegni, stampe e piante del Seicento e del Settecento, la sua consistenza si desume dettagliatamente dall’Olivero che riportò nelle sue Memorie Storiche la descrizione fattane da monsignor Angelo Peruzzi, visitatore apostolico di Sarsina nel 1585. Il prelato ebbe però occasione di visitarla proprio nel periodo in cui le sue condizioni erano di grave degrado strutturale, avendo subito i danni dell’esondazione del Cevetta nel luglio dell’anno precedente. In questa infausta circostanza, tra l’altro, perì il padre Bernardino Raineri mentre stava officiando messa ad uno degli altari. Il vescovo sarsinate constatò la mancanza di ogni necessario suppellettile presso quasi tutti gli altari. Questi erano dodici ed alcuni erano sussidiati da famiglie patrizie cevesi . Oltre a quello Maggiore vi erano quelli di san Bernardino, di san Ludovico, di san Gerolamo, di proprietà della famiglia Barberis, dell’Annunciazione di Maria Vergine appartenente alla famiglia Sofia, di sant’Anna, delle Stimmate di san Francesco legato alla famiglia Gandolfi, di san Giovanni della famiglia Chiavelli, di san Gioachino patronato della famiglia Sciarra, di san Nicola della famiglia Cadana, della Concezione di Maria Vergine ed infine quello di proprietà della famiglia Giogia del quale non è pervenuta l’indicazione del titolo.
Nei primi anni del Settecento la chiesa ed il monastero furono oggetto di grosse opere di ristrutturazione. Dopo poco più di un secolo, l’insediamento monastico venne soppresso dalle imposizioni del governo napoleonico. I locali del convento furono destinati ad uso delle scuole governative e nel 1840 permutati con quelli del vicino ospedale che, abbisognando di più ampi spazi, vi stabilì la sua sede. La chiesa, già da quel periodo, rimase probabilmente non più officiata, anche se in un disegno di Clemente Rovere del 1855, tratto dalla sua opera Il Piemonte antico e moderno, si nota ancora ben delineata in tutto il suo insieme. Una quindicina di anni più tardi però venne definitivamente privata delle sue funzioni e, attraverso sostanziali interventi edilizi, convertita anch’essa in locali di degenza e servizi accessori del nosocomio. A testimonianza del suo passato di edificio religioso restarono parte dei muri perimetrali, la forma di alcune volte in locali in corrispondenza di quella che era stata la navata di sinistra e soprattutto, seppur tamponato, buona parte del portale di ingresso sormontato dalla lunetta, affrescata da Rufino di Alessandria ai primi del Quattrocento, raffigurante una Madonna col Bambino tra il beato Pietro da Lussemburgo e sant’Antonio abate che, non a torto, si può considerare uno dei più pregevoli reperti storico-artistici della città.

Cappella di San Francesco di Sales

Questa occupava un piccolo spazio all’interno del Monastero delle suore della Visitazione, ordine che fu appunto fondato dal santo vescovo francese nel 1610. Il convento delle Visitandine fu attivo dal 1666 al 1765, in fondo al borgo Sottano vicino al ponte della Catalana ed alla torre detta dei Guelfi, oggi non più esistente. Fino agli anni cinquanta del secolo scorso erano ancora visibili alcuni resti di questa cappella nelle cantine del caseggiato abbattuto per far posto al grosso edificio condominiale.

Chiesa dello Spirito Santo

La vecchia chiesa dello Spirito Santo al borgo Sottano non si trovava nel sito in cui venne eretta quella attuale, nel 1901, bensì sul lato opposto, nell’area del controviale, non allineata con le case, leggermente più spostata verso il fondo del borgo e con la facciata rivolta in direzione del centro della Città. Il suo abbattimento, oltre alla notevole fatiscenza, fu dovuto anche al fatto che nella posizione in cui sorgeva era di intralcio al previsto allargamento della strada nazionale ed alla conseguente modifica del suo innesto sul ponte della Catalana. Sulla data precisa della costruzione della chiesa non si hanno certezze.
A metà del Cinquecento nel borgo era operativa la Confreria dello Spirito Santo che con varie iniziative di carattere sociale e sanitario provvedeva al sostegno delle persone e dei nuclei famigliari meno abbienti. Essa è citata nelle relazioni dei vescovi visitatori monsignor Ragazzoni nel 1578 e monsignor Peruzzi nel 1585. La confraternita fu sicuramente la promotrice dell’edificazione della chiesa, nella quale stabilì la propria sede oratoriale. Per le caratteristiche architettoniche e per il fatto, come asserito dall’Olivero, che nel 1638 esistessero già disposizioni testamentarie per messe di suffragio, l’edificio può essere considerato opera dell’inizio del XVII secolo. Esso infatti figura rappresentato su vari dipinti e piante del Seicento anche se non sempre delineato in eguale maniera. Questo può essere dovuto a devastazioni subite in occasione delle inondazioni del Cevetta ed ai successivi ripristini. Le immagini che sono pervenute attraverso alcune rarissime cartoline di fine Ottocento mostrano un fabbricato di non grandi dimensioni, piuttosto stretto e lungo, con il campanile che si elevava come struttura a sé stante alla sinistra dell’abside. La facciata era composta da due organi architettonici sovrapposti sormontati da un timpano scanalato. Quello inferiore consisteva in un porticato di accesso, in origine aperto su tre lati e poi parzialmente tamponato. Nel 1894 fu progettato un ampliamento della parte retrostante che però non venne realizzato. Pochi anni dopo si decise la totale demolizione, dando avvio alla fabbricazione della nuova chiesa.

Chiesa di Santa Croce

Don Olivero, nel descrivere il luogo su cui venne edificato nella seconda metà del Cinquecento il convento dei Cappuccini, dice che questo era fuori della cinta muraria della città vicino al borgo detto di santa Croce (l’attuale borgo della Luna), così chiamato per un’antica chiesa che vi si trovava e che portava questo titolo. Di questo edificio, probabilmente risalente almeno al basso medioevo, a causa della massiccia trasformazione urbana susseguitasi nei secoli in quella zona e delle frequenti esondazioni del Cevetta, non sono più reperibili tracce concrete né esistono prove documentali che ne forniscano indicazione, salvo voler individuare come chiesa un fabbricato, con porticato antistante, sito nei pressi del ponte di san Giovanni e molto vicino al greto del torrente, riprodotto sul già citato secentesco dipinto ad olio di anonimo conservato in municipio. Un'attendibile prova documentale della sua esistenza viene fornita da Giovanni Cappellano di Bossolasco che la cita nell'elegia scritta relativamente all'inondazione del Cevetta del 6 luglio 1584, che fu pubblicata solo nel 1742 dall'arciprete Marazzani e interamente tradotta dal latino e trascritta da padre Giuseppe da Bra: "... Mirabil cosa! Distrutta tanta copia di luoghi e di ostacoli, rimase illesa la chiesina di Santa Croce...". Può essere però anche non priva di fondamento l’ipotesi formulata da padre Arcangelo Ferro e cioè che il borgo avesse preso il nome da una grande croce che colà insisteva e che è chiaramente raffigurata sia sullo stesso dipinto che sul disegno di Giovanni Tommaso Borgonio realizzato nel 1675, utilizzato poi per incidere la corrispondente tavola del Theatrum Sabaudiae.

Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Sofia Ceva, figlia del marchese Giorgio I e vedova di Ferdinando Catalano, qualche giorno dopo l’alluvione provocata dalle acque del Tanaro il 7 ottobre 1331, fece testamento presso il notaio Oberto Decarlino di Ceva. L’Olivero asserisce che questo era conservato presso l’archivio episcopale di Albenga, di cui fu vescovo, in quel periodo, il cugino della testante Federico Ceva. Ricerche condotte di recente non lo hanno più reperito, ma sulle Memorie Storiche dell’arciprete cebano è riportato l’intero testo tradotto dal latino. La nobildonna nel suo atto, in cui era previsto tra l’altro il finanziamento della costruzione di un nuovo ponte che da lei prese il nome (ponte della Catalana), fece una descrizione dell’evento calamitoso: «… debbasi annoverare la grande innondazione d’acque non mai sentita a memoria d’uomo avvenuta il sette di questo mese; dalla parte sinistra della Chiesa di S. Maria delle grazie, di buon mattino all’improvviso, e a ciel sereno. Furioso il Tanaro ha rovinato l’oratorio e la massima parte del convento dei frati minori…». Senza poter comprendere quale fosse la parte sinistra che la marchesa intendeva, la direzione era comunque quella del monastero francescano, cioè verso sud-ovest. Avendo lei fatto una minuziosa descrizione di quanto andò distrutto, senza comprendervi la suddetta chiesa, è ipotizzabile che questa potesse trovarsi su un sito elevato rispetto all’argine del fiume. Si ritiene quindi di poter affermare che altro non poteva essere che il poggio sul quale, quasi un secolo e mezzo più tardi, sarebbe stato eretto il convento degli Agostiniani, la cui chiesa, guarda caso, portò il medesimo titolo di questa. Inoltre si trova citata una Ecclesia S. Mariae de gratijs su una “recensio jurium parrochialium (enumerazione dei diritti parrocchiali) Ecclesiae Sanctae Mariae de castro Cevae” che porta la data del 27 maggio 1498. Si può pertanto concludere che già agli inizi del XIV secolo, sul luogo che fu occupato fino al 1798 dal monastero agostiniano, ora sede del cimitero urbano, insisteva una chiesa dedicata a Santa Maria delle Grazie.

Chiesa di Nostra Signora delle Grazie (o Madonna delle Grazie o Santa Maria delle Grazie)

Questa era la chiesa del convento dei padri Agostiniani che la edificarono, insieme alle strutture monastiche, nello stesso luogo ove probabilmente già era esistito un altro edificio religioso con il medesimo titolo. La costruzione ebbe inizio nel 1473 con il contributo dei marchesi Gerardo e Teodoro Ceva, dopo che papa Sisto IV aveva autorizzato l’insediamento dei frati con apposita bolla dell’11 giugno 1472. Venne ufficialmente consacrata il 23 ottobre 1530, da monsignor Gioan Maria Biglione, vicario generale del vescovo di Mondovì, Carlo de Camera, con la licenza del vescovo di Alba. Doveva essere di dimensioni abbastanza ampie in quanto il vescovo Peruzzi, in occasione della sua visita apostolica del 1585, annotava presenti in essa oltre all’altare Maggiore altri nove: dell’Annunziata (patronato della famiglia Mina), di santa Caterina, dell’Ascensione di Nostro Signore, della Natività di Nostro Signore, di san Luigi, di santo Stefano, di san Giovanni Battista, di san Giacomo e di san Nicola. Dalla relazione del prelato si evinceva che davanti al Santissimo Sacramento all’altare Maggiore ardeva costantemente una lampada a spese di monsignor Giovanni Ludovico Luigi Pallavicino, in quel tempo vescovo di Nizza. Il medesimo altare usufruiva anche di rendite di Ludovico Giogia.
La soppressione del convento venne decretata nel 1798. La chiesa e gli altri edifici monastici vennero in parte abbattuti ed i beni di pertinenza furono venduti a privati ed incamerati dal governo francese. Si riuscì comunque a recuperare ed acquisire per la fabbriceria del Duomo, ove si può ammirare tuttora, l’imponente manufatto ligneo secentesco che formava il coro della chiesa, altre suppellettili sacre ed alcuni quadri. Tra questi quello che costituiva la pala dell’altare maggiore, rappresentante una “Deposizione”, che qualche esperto del passato asserì essere simile ad altra eseguita dal famoso artista Antonio Allegri detto Il Correggio. Questo dipinto era stato donato nel 1646 alla chiesa dei frati di Sant’Agostino da Don Vitichindo di Savoia, figlio del duca Carlo Emanuele I. Nel 1809, il sito fu trasformato in cimitero urbano e nel 1842, a cura della Compagnia del Suffragio, utilizzando una parte delle vestigia del vecchio monastero, furono iniziati i lavori per la costruzione dell’attuale chiesa di Sant’Agostino.

Chiesa di Sant'Andrea

Gli autori che hanno preso in esame la storia di Ceva citano l’atto relativo alla fondazione dell’abbazia di Santa Maria dei Benedettini di Pinerolo, effettuata da Adelaide di Susa, contessa di Torino, vedova di Oddone di Savoia, che era il figlio del capostipite della Signoria Umberto I Biancamano.
La contessa Adelaide, signora a quel tempo della Marca Arduinica, fece dono ai monaci, con rogito dell’8 settembre 1064, di “… un manso (appezzamento di terra con una superficie corrispondente a circa dodici giornate piemontesi attuali, cioè quasi 46.000 metri quadrati) nell’ambito della zona denominata Ceva (…infra villam Cevam…) come fu tenuto e coltivato da Giovanni Rosso, coi mulini e battenderi (macchine mosse da una corrente d’acqua per rendere sodi tessuti di lana e pelli), e una cappella presso il detto manso, costruita in onore di sant’Andrea (…constructa in honore sancti andreae…), con tutte le cose appartenenti allo stesso manso…”.
L’atto adelaidino è il documento inconfutabile più antico finora conosciuto in cui compare l’appellativo della città, se si escludono i riferimenti di Plinio il vecchio (caseo... cebanum) e di Columella (vaccae ... Cevas appellant), la cui attinenza con Ceva è ancora oggi fonte di discussione, la lapide citata dal Mommsen nel 1877 (L. Didius Caeva) che parrebbe risalire al I o II secolo d.C. ed una menzione, a detta dello storico padre Arcangelo Ferro, "ancora alquanto confusa", che indicherebbe cinque mansi in “Seva” tra le donazioni fatte nel 1028 alle monache benedettine in occasione della fondazione del loro monastero in Caramagna.
In tutti i casi è l’attestazione più remota che parla di un edificio religioso sul territorio cebano.
La chiesa si trovava adiacente a quella che nell’Ottocento era chiamata la cascina della Penitenzieria o anche di Sant’Andrea, al limite orientale della Piana, in cima al borgo della Torretta, agglomerato sorto e sviluppatosi certamente in epoca antecedente rispetto a quello intorno ed ai piedi del castello aleramico.
Le congetture di quasi tutti gli storici locali in relazione al periodo della sua erezione non si discostano da quanto riportato dal canonico Olivero nelle sue Memorie. Egli, chiamandole “vaghe tradizioni”, riferisce che in quel sito vi fosse primieramente un sacello pagano dedicato ad Apollo, di cui si sarebbero rinvenute immagini ed iscrizioni che vennero murate ristrutturando la cascina. Padre Ferro, sulla base di altri modesti reperti di epoca romana, che si diceva fossero stati trovati nel borgo della Torretta, ma dei quali già ai tempi dell’Olivero non vi era più traccia, ipotizzava invece che questa chiesa fosse la ricostruzione di un’altra, che avrebbe potuto essere la più antica pieve o parrocchiale di Ceva, risalente ai primi secoli del Cristianesimo. In ogni modo stante la documentata attività e conseguente ovvia popolosità del borgo, come si evince dalla donazione di Adelaide di Susa, pare lecito supporre che una chiesa vi esistesse al servizio degli abitanti almeno dal X secolo, già eretta in parrocchia secondo l’opinione dei più oppure, almeno all’inizio, solo in funzione di titolo del Piviere di Vico, dipendente dalla diocesi di Asti (come presupposto dallo storico Aldo Martini).
I Benedettini pinerolesi godettero del manso mantenendo un loro sacerdote per il servizio religioso nella chiesa fino a che, i nuovi marchesi, instauratisi in Ceva verso la metà del XII secolo, cominciarono ad appropriarsi, a titolo di feudo, dei molini e dei battandieri.
L’inondazione del Tanaro del 7 ottobre 1331 distrusse la parte inferiore del borgo Torretta e molte delle terre coltivabili che erano di pertinenza della parrocchia di Sant’Andrea, la cui popolazione, a causa di quella calamità naturale, si era sensibilmente ridotta. Questa ragione, unita al fatto che i marchesi Ceva nel frattempo avevano esteso i loro domini al di là del Tanaro verso occidente, indusse il vescovo di Alba, Pietro Avogadro, dopo la sua visita pastorale del 1338 a ritenere aggregabile alla sua diocesi questa parrocchia, proponendone al suo capitolo la soppressione e la trasformazione in canonicato in seno alla Collegiata di Santa Maria del Castello, dove intorno e nella piana sottostante si stava rapidamente espandendo ed assumendo importanza il nuovo nucleo urbano di Ceva. Vi furono varie opposizioni a questo disegno: prima del parroco in carica ed alla sua morte dell’Abate di Pinerolo, che chiese aiuto ai Visconti di Milano, acerrimi nemici dei marchesi del Monferrato a cui i Ceva avevano giurato fedeltà, nell’ambito delle contese tra questi, gli Astesi ed i Visconti medesimi.
I milanesi assediarono Ceva nel 1351 e vi spadroneggiarono per alcuni anni. Finalmente, dopo la loro cacciata a furor di popolo nel gennaio del 1356, poté essere realizzato il progetto del vescovo Avogadro dal suo successore alla cattedra albese, il monsignor Lazzarino Fieschi. La chiesa di Sant’Andrea ed i suoi beni passarono sotto la giurisdizione parrocchiale dell’Arcipretura di Santa Maria de Castro, percependo le decime che si raccoglievano unitamente all’arcipretura stessa ed agli altri tre canonicati di san Pietro, san Michele e santa Margherita. Nel 1780, su richiesta del canonico Mina fu eretta dalla Santa Sede in penitenzieria.
Il canonico Celestino Ceva di Lesegno, ultimo discendente dell’antica casata marchionale, insigne benefattore della Collegiata, che servi in qualità di confessore straordinario per 55 anni, nel 1793 fece restaurare la parte dell’antica chiesa che era unita alla casa colonica, facendovi apporre un’iscrizione commemorativa in latino che ne ribadiva i passaggi storici essenziali e cioè: già edificata nel X secolo, eretta in canonicato nell’ambito di Santa Maria de Castro nel 1338, insignita del titolo di penitenzieria nel 1780.
Nel 1796, la cappella fu profanata dai francesi invasori e da allora non fu più officiata. Progressivamente andò in rovina e quasi tutti i suoi spazi furono inglobati nei successivi ampliamenti e ristrutturazioni della cascina, mantenendo comunque all’interno di questa evidenti segni della sua esistenza. Fu infatti in occasione dell’intervento di “restauro” di padre Celestino Ceva che l’antica chiesa di sant’Andrea assunse la consistenza che è possibile osservare tuttora.
Si tratta di uno spazio che taglia in modo trasversale l’odierno fabbricato dell’omonima cascina, all’interno della quale è, come anzidetto, incorporato, separandone la porzione più vetusta rispetto ad un’addizione effettuata nel XX secolo.
La chiesa si presenta come un piccolo ambiente, planimetricamente molto articolato, sormontato da una volta a vela principale alla quale sono affiancate altre due laterali di dimensioni ridotte. Tutte mostrano una decorazione pittorica, che in alcune parti è ancora oggi molto ben conservata, specie sulla volta principale, dove si evidenzia un catino dipinto a tromp d’oeil. L’accesso principale è laterale rispetto all’unico altare, realizzato in muratura, a corredo del quale, nonostante l’avanzato stato di degrado, emergono ancora numerose tracce di stucco e decori policromi.
Esaminando con attenzione le strutture murarie della sezione più vecchia del complesso dei fabbricati che costituiscono l’odierna dimora colonica, si notano apprezzabili tracce che inducono a presupporre che precedentemente all’intervento del 1793 la chiesa di Sant’Andrea fosse molto più ampia e si estendesse fino ad occupare l’intera parte occidentale dell’attuale edificio.
Sulla base di questa osservazione appare chiaro il fatto che quella che fu la struttura complessiva della chiesa di Sant’Andrea, così come si presentava dopo l’intervento di ripristino dell’abate Ceva, non fosse stata altro che l’estremo settore orientale della chiesa primitiva e, in particolare, corrispondesse alla porzione absidale.
L’intero sito è di proprietà privata.