Seguici anche su Facebook! |
Il carnevale è considerato un periodo di gioia e divertimento per grandi e piccini, la parola può essere interpretata in diversi modi: carni levamen: sollievo dalla carne; car naval: carro navale fatto con ruote usato nei cortei; carni vale: addio alle carni, in riferimento al digiuno osservato nella quaresima.
Il periodo che precede la quaresima e ci porta alla santa Pasqua in Piemonte viene anche abbellito e vivacizzato dalle decorazioni carnevalesche e dai dolci tipici del carnevale come le bugie e le chiacchiere.
Il carnevale è uno dei più antichi riti ed indica la fine dell'inverno. L’origine di questa festa è pagana. Nell’antico Egitto il popolo mascherato accompagnava i buoi per le vie della città fino all’altare dove venivano sacrificati al dio del Nilo. Nell’antica Grecia si festeggiava il dio del vino Dionisio, con musiche e canti. Gli antichi romani facevano baldoria con lauti banchetti e si mascheravano in occasione dei Saturnali, nel mese di dicembre, per placare le divinità che uscivano dalla terra e far si che tornassero nell’aldilà dove avrebbero pregato per il raccolto estivo. Mentre durante i Lupercali, che si svolgevano a febbraio in onore del dio Fauno, i sacerdoti si vestivano con pelli di lupo.
Nel periodo medioevale era famosa la "Festa dei Folli", che prevedeva maschere e comportamenti trasgressivi tali da provocare l'intervento del Papa, ma nonostante i divieti papali la festa continuò a svolgersi in tutta Europa per secoli: in quest'occasione anche il clero minore si mascherava, a volte con camuffamenti demoniaci e bestiali, cantando e danzando nei luoghi sacri.
Nel rinascimento il carnevale raggiunse il suo massimo splendore. La sua durata occupava i primi mesi dell’anno con spettacoli sfarzosi e tripudi imponenti. A Firenze, Lorenzo de' Medici promosse grandi feste ove la gente mascherata si metteva in mostra su carri trainati da cavalli, detti trionfi e si cantava e ballava per settimane intere. Con l’avvento della commedia dell'arte a questi travestimenti venne dato il nome di Maschere e gli artisti che le impersonavano recitavano a soggetto, creando così dei personaggi con caratteri particolari che si ripetevano in ogni intreccio: l'avaro, la servetta maliziosa ed astuta, lo spasimante, il dottore e così via.
Nel Settecento queste maschere abbandonano il palcoscenico e si comincia ad assistere alla nascita delle maschere regionali.
Il carnevale passa poi un po’ in secondo piano fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra ritorna ad essere la festa più esuberante dell'anno. Oggi, sono famosi il Carnevale di Venezia, di Viareggio, di Ivrea e, a livello internazionale, quello di Rio de Janeiro.
In Piemonte, quasi ogni paese crea le proprie maschere e Gianduja (Giandoja in piemontese) è la principale, nata nel 1808 a Callianetto dalla creatività di Giambattista Sales di Torino e di Gioachino Bellone di Oja, frazione di Racconigi.
L'antenato di Gianduja era Gironi, maschera popolare piemontese, ben nota fin dal 1630. Tra i due vi erano molte attinenze caratteriali ed estetiche. Alla fine del Settecento Gironi era uno dei protagonisti degli spettacoli del famoso marionettista Umberto Biancamano di Torino, detto Giôanin d'ij ôsei.
Sales e Bellone presero spunto da questo personaggio per inventare Gerolamo, arguto ed ironico che recitava nel suo teatrino. Purtroppo la satira e le allusioni delle battute dei suoi personaggi fecero sì che venissero arrestati e condannati a morte, con l'accusa di lesa maestà nei confronti del fratello minore di Napoleone Bonaparte, re Gerolamo di Westfalia. Dopo un periodo di prigionia scapparono e si rifugiarono a Callianetto. Qui cambiarono il loro modo di far satira e per poter tirare avanti Sales si esibiva nelle osterie, mascherato con un cappello a tricorno e codino all’insù, dotato di una parlantina beffeggiante ed arguta. Il suo personaggio era conservatore, di umore sempre allegro, scaltro anche se all'apparenza rozzo ed ingenuo, un galantuomo che amava il buon vino e la buona tavola, infatti aveva con sé sempre una dôja, un boccale di terracotta per bere il vino. Questo fece sì che lo soprannominassero Giôan d’la dôja, che si trasformò in Gianduja. La simpatia, l'astuzia e l'ironia del personaggio lo fecero ben presto divenire famoso in tutto il Piemonte, sino a divenirne un emblema che in modo giocoso portava avanti le idee del Risorgimento.
Si decise di affiancare una spalla per questa maschera e si creò una compagna: Giacometta. Essa rappresenta la saggezza delle donne piemontesi, il suo buonsenso le permette di risolvere anche i problemi più difficili, è pronta ad aiutare i poveri e a reagire contro i prepotenti; maliziosa, col carattere forte, ma buono.
Carnevale Cebano
Facendo riferimento ad una leggenda popolare, tramandata oralmente e giunta fino ai nostri giorni, condita di “romantici” ritocchi e digressioni, pare che verso la metà del Seicento si fosse cominciato ad organizzare delle sagre nella città di Ceva. Queste erano un’occasione di scambio di merci con i paesi vicini e davano lo spunto per ogni sorta di baldoria. Il buon successo riscontrato fornì la motivazione per istituire la figura di un Abate che organizzasse tali festeggiamenti e si narra che costui venisse eletto ogni due anni dai cittadini. Una delle iniziative più attraenti e spettacolari era l’approntamento dell’albero della cuccagna. In questi presunti eventi, con un po’ di fantasia, si possono ricercare gli albori delle attuali “carnevalate” cebane.
Testimonianze scritte sulle celebrazioni carnascialesche nelle nostre zone si possono rinvenire a partire dalla fine dell’Ottocento, in quanto i periodici locali di informazione, che nel frattempo avevano incominciato ad essere editi, garantivano puntualmente spazio per le cronachette delle manifestazioni. Queste feste si condensavano in luculliane libagioni e serate danzanti in maschera, soprattutto presso le sedi delle due aggregazioni sociali presenti in Ceva, la Società Operaia e la Società Brenta ed anche nei locali del teatro Marenco. In questi ritrovi i ristoratori cebani dell’epoca davano ampio sfogo alla loro arte culinaria e varie orchestrine da ballo si alternavano per accompagnare i danzatori con le loro musiche, tutti ampiamente ricompensati da una corposa e festante partecipazione popolare. Non mancava ovviamente l’attenzione per i più piccoli come attesta una fotografia del 1903, pubblicata sul libro dedicato alla banda musicale, riferita al ballo dei bambini proprio presso il teatro. Dal 1920 in poi, vennero create diverse maschere che arrivarono fino ai giorni nostri. La Fata del Forte fu la prima maschera ufficiale del carnevale cebano. Protagonista del romanzo dell’avvocato Salvetti che ne raccontava le vicende e pubblicato nel 1910. La fortezza sabauda fornì lo spunto per creare il personaggio mascherato del Governatore. Si hanno poche testimonianze fotografiche di quegli anni, ma particolarmente divertente è una foto del “Carnevale Giovani Operaie” tenutosi nel 1928, ove compaiono Gianduja e Giacometta.
Nell’ultimo dopoguerra la gente tentò di lasciarsi alle spalle la memoria degli anni cupi che ad ognuno avevano fatto dimenticare il significato delle parole festa, allegria, divertimento, senza ovviamente perdere il ricordo dei tanti che con il loro sacrificio avevano consentito ai più di continuare in pace il cammino della loro esistenza. Grazie anche al rapido diffondersi dei mezzi di trazione a motore cominciarono così ad essere organizzate sfilate carnevalesche con carri allegorici e gruppi mascherati. Si iniziò verso la fine degli anni Quaranta.
Animatori principali furono il maestro Aldo Martini e il signor Michele Baravalle, mentre Filippo Gambera, detto Flip, nel 1949 compose la musica ed il testo della famosa "Tarantella Cebana" che rimase da allora l’inno di Ceva, anche se ormai oggi un po’ desolatamente ignoto a buona parte dei cebani. Gli abitanti dei borghi diventarono protagonisti nella preparazione di carri e maschere, ma anche diverse scolaresche vennero coinvolte. Si andò avanti così per poco più di un decennio dopodiché vi fu un'interruzione fino al 1976.
In quell’anno, ricostituitasi una valida Pro Loco, si organizzarono nuovamente i cortei mascherati con carri allegorici. Considerevole fu anche il supporto di molti componenti della Filodrammatica del Teatro Marenco, anch’essa da poco ritornata in auge, della Banda Musicale che da un paio d’anni aveva ripreso a pieno ritmo la sua attività e del nuovo Gruppo delle Majorettes, fondato l’anno precedente. Anche il Gruppo Corale Cebano, attivo fino al 1978, predispose due bei carri. Da subito, rispolverando qualche vecchia fantasia popolare, furono creati i personaggi di Bosořin e Madlinin dřa Creuza, che divennero le due maschere ufficiali del nuovo carnevale. Le prime edizioni delle sfilate furono addirittura a concorso per incentivare la partecipazione di più soggetti possibile. Si alimentarono così le festose rivalità tra i vari rioni e tra le diverse associazioni cittadine. Epica si rammenta la sfida nel 1977 tra I Cannibali del Broglio ed il Galeone dei Pirati. Ai vincitori veniva assegnato un artistico trofeo che era tenuto dai medesimi fino all’anno successivo (ora è conservato presso il Museo Storico Città di Ceva). Venne inoltre ripristinata quella che forse in epoche passate era una tradizione cebana: il Carvè Vej, che prevedeva di proseguire con le baldorie oltre il martedì grasso, fino alla prima domenica di quaresima. Alcune particolari circostanze che si evidenziarono in quegli anni furono: nel 1979 il ricevimento in Comune del Moro, maschera ufficiale del carnevale di Mondovì e di Ciciolin, il re del Carnevale di Savona, che prese parte anche ad un paio di sfilate negli anni successivi; la partecipazione delle maschere cebane al carnevale di Savona nel 1981, la presenza ai festeggiamenti cebani del 1984 del Gianduja di Racconigi, cittadina che negli anni ‘80 si contendeva con Torino la paternità della maschera ufficiale del Piemonte; la partecipazione nel 1985 e 1986 delle maschere di Ceva al carnevale di Racconigi.
Non solo tutta la popolazione di Ceva era coinvolta, ma era anche notevole l’adesione dei paesi vicini, costantemente presenti con i loro carri, tant’è che l’edizione del 1986 si tenne sia a Ceva che a Bagnasco.
Si continuò fino al 1988, dopodiché, a causa dei costi organizzativi, di una mancanza di ricambio generazionale nella gente delle contrade che si attivava in tal senso e soprattutto per la concorrenza delle manifestazioni in città vicine che potevano contare su maggiori risorse, si interruppe nuovamente la storia del Carvè ‘d Seva.
Si registrarono solo più in tempi recenti alcuni balli in maschera e sfilate di bambini con l'organizzazione dell'Oratorio Parrocchiale e anche la partecipazione un paio di volte di un folto gruppo cebano al carnevale di Mondovì.
In una poesia di Carletô de’ Breûi è descritto il Carnevale Cebano:
Carvè ‘d Çeva
Dop tant temp, sôma tôrnà
a rv’gghi ‘d Seva le côntrà,
mà, jôma trôvà na gran diferenza,
da qôand sôma partisne en diligenza.
J’ôma pi nen cônôsciû, la Cônsôlà
la Piana, ‘l Breui e la Canà,
côn si palas, àt e lông parei
chi sôn spôntà côme bôrei.
Fina j nomi, sôn cambià
e Polesine j’an ciamà,
a côi prà ‘d mônsû Martin
chi sôn vers j Nôsalin.
En pasand per ‘l Bôrsôtan
jôma ciamà, se a cà ‘d Caplan
dàvô encô i cis brôvâ
per la festa ‘dla côntrà.
J’an vardàne côn n’ària ‘d cômpasiôn
côme fûismô dôi fôlatôn,
e pensè che da masnà
j’spetàômô sa giôrnà.
J’ûniche cose chi sôn restà
tàl e qôàl jôma lascià,
la Roca, ôDom, ‘l Campanôn,
che vardandie ‘n dan côl sens ‘d prôtesiôn.
20 Fervè 1977
Madlinin e Bôsôlin ‘d la Creusa
(Carnevale di Ceva: Dopo tanto tempo siamo tornati /a rivedere le contrade di Ceva /ma, abbiamo trovato una gran differenza /da quando ce ne eravamo andati in diligenza.
Non abbiamo più conosciuto la Consolata, /la Piana, il Broglio e la Cannata, /con questi palazzi, così alti e lunghi /che sono spuntati come funghi.
Persino i nomi sono cambiati /e Polesine hanno chiamato /quei prati del signor Martino /che sono verso i Nosalini.
Passando per il Borgo Sottano /abbiamo chiesto se a casa di Cappellano /davano ancora i ceci bolliti /per la festa della contrada.
Ci hanno guardati con un’aria di compassione /come fossimo due grandi scemi, /e pensare che da bambini /aspettavamo questa giornata.
Le uniche cose che sono rimaste /tale e quale abbiamo lasciate, /la Rocca, il Duomo, il Campanone, /che guardandole ci danno quel senso di protezione.
20 Febbraio 1977 - Madlinin e Bosořin dřa Creuza)
Maschere Cebane
Bosořin dřa Creuza
Il signor Bosořin abitava nella contrada della Creuza a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Personaggio stravagante e festaiolo, taccagno, ma con atteggiamenti da gran signore era il classico patachin borghese e meschinello. Di mezz’età, estroso nel modo di vestire, portava una lunga giacca di canapa verde, con un paio di pantaloni a grossi quadri bianchi e neri. Al braccio aveva sempre un ombrello con l’impugnatura finemente scolpita o un bastone da passeggio. Galante e lezioso, si dava molto da fare con il gentil sesso, anche se la sua età, l’avarizia e la sua posizione di popolano non gli offrivano molte possibilità.
In una poesia di Carletô de’ Breûi è descritto in modo arguto e divertente:
Bôsôlin d’la Creusa
Con dui eui néi e na facia ‘n po’ piatina,
u pàrla con na vos limpida ‘d canarin
u re bianc e ross come na bossorina
e n’espression briusa d’en cretin.
Tuti riessu a feru parlé
‘sfan di gl’aveniment dra giornà
mentre ra testa u tira ‘n dré
E u mangia bossure e cornà.
Quand u và a spass, fa giré ‘l canin;
tuti i moment u srangia ra cràvatà,
aussa ‘l capel, u tira i barbisin
e u fa ‘n muine come ‘n gata!
Le mangia nen pér risparmié,
ra fatiga u sa nen còsa sia,
ra cort à ogni dòna e ogni fia.
Da bon “ebreu” seva r’avarisia sa dimostré.
(Bosořin dřa Creuza
Con due occhi neri e una faccia un po’ piattina /parla con una voce limpida da canarino /è bianco e rosso come i pomin d’amor (frutti del biancospino) /e l’espressione briosa di un cretino.
Tutti riescono a farlo parlare /si fanno dire gli avvenimenti della giornata, /mentre tira indietro la testa /e mangia bacche e corniole.
Quando va a spasso, fa girare la sua canna, /ogni momento s’aggiusta la cravatta, /alza il cappello, si tira i baffetti /e fa moine come una gatta.
Non mangia per risparmiare, /la fatica non sa cosa sia, /fa la corte ad ogni donna e ogni ragazza. /Da buon “ebreo” sa dimostrare la sua avarizia.)
Sono stati tre gli interpreti della principale maschera cebana nel periodo dal 1976 al 1988: Carletto Cairo, Armando Gallo e Franco Borgna. Dal 2012: Mario Barra.
Madlinin dřa Creuza
Donna avvenente, ma zitella, probabilmente per scelta, aveva attirato le attenzioni di Bosořin dřa Creuza, suo vicino di casa. Molto allegra, amante della musica, del canto e della buona tavola. In occasione delle feste era la protagonista grazie al suo carattere esuberante che faceva invaghire i buoni partiti del paese e il povero Bosořin. La sua indole estroversa ed esageratamente briosa non piaceva a suo padre, che la rimproverava continuamente. Madlinin, però, era una donna emancipata e non sopportava il rigore della società in cui viveva, solo pronta a chiacchiere malevoli e maliziose, allora abbandonò la modesta casa paterna di prato Mombello per andar a vivere in un castello lontano.
Nel periodo dal 1976 al 1988 ad impersonare Madlinin si sono succedute: Lina Stringa, Jone Bagnasco, Anna Carrara, Mirella Porro e Paola Rossotti. Dal 2012: Rosanna Giugale.
La Fata del Forte
Come anzidetto, La Buona Fata del Forte di Ceva è in primo luogo la protagonista del romanzo dell’avvocato cebano Giovanni Battista Salvetti, ambientato all’inizio del 1600.
Era chiamata la buona Fata, perché era come la misericordia di Dio, soccorrevole e madre dei poverelli. Conosceva le molteplici virtù delle erbe che usava per curare la gente. Bellissima, figura snella, aggraziata e slanciata, mani affusolate, pelle chiarissima, viso ovale, occhi neri. Figlia del marchese d’Alba, costretta a fuggire per evitare un matrimonio combinato, si rifugia nella città natale della sua fidata cameriera: Ceva. Qui passa le sue giornate ad aiutare poveri e malati. Scoppia un’epidemia che colpisce i soldati del Forte e Bianca, personaggio di inusuale tempra ed umanità, non esita a dedicarsi totalmente ad essi. Serena e tranquilla pensa di essere al sicuro sotto i bastioni del Forte, ma viene scoperta! Soccorsa dal suo amato Ottone, inizia una rocambolesca storia, cucinata con sapiente arguzia dallo scrittore che descrive le peripezie dei giovani in una piccola città, protagonista anch’essa di un’avventura corale, tra la drammaticità dei suoi momenti cruciali e la vivace quotidianità di un ambiente capace di ricreare, con limpidezza superiore alla penna di uno storico, luci ed ombre di un Seicento cebano di grande fascino.
Probabilmente l’avvenente damigella, le cui vicende il Salvetti pubblicava settimanalmente sul Falconiere, affascinò a tal punto i cebani che si decise di farla diventare un personaggio del carnevale, con la prescrizione che fosse impersonata da ragazze che disponessero della medesima leggiadria. Inizialmente si decise di usare l’abito disegnato dal celebre pittore e costumista Luigi Sapelli, detto Caramba: una veste a campana di tessuto blu tempestato di stelle. Quest’abito era stato realizzato nel 1899 in occasione di una festa per l’avvento della luce elettrica a Ceva e nel libro del Teatro vi sono i bozzetti fatti per l’uomo e la donna.
Nel periodo dal 1976 al 1988 le Fate furono: Marinella Meistro, Maria Ciravegna Tomatis, Meri Dante, Isa Penna, Susanna Boffano, Barbara Manera, Monica Canova e forse qualche altra ancora. Dal 2012 è Noemi Chiapale.
Il Governatore
Figura legata alla storia locale. Era il comandante della fortezza dei Savoia: il Forte di Ceva. Si è voluto allegoricamente tramandare la memoria della forza ed importanza militare della città, prendendo come esempio uno dei più valorosi ufficiali: il generale Francesco Bruno di Tornaforte che si oppose alle truppe napoleoniche.
Nel periodo dal 1976 al 1988 questa maschera è stata impersonata da: Sergio Risso, Giovanni Vada, Vincenzo Amerio, Giovanni Seno e forse qualche altro ancora.
L’Abate
Pochi anni prima dell’interruzione dei festeggiamenti del Carvè ‘d Seva, negli anni ‘80, rinverdendo forse il mito della leggenda secentesca, venne aggiunta al novero delle maschere cittadine la figura dell’Abate con il compito di coordinare e condurre il carnevale. Interpreti: Nuccio Vada, Ezio Calvo.
Altre maschere
IJ Magnin ‘ed Seva erano una cerchia di amici sempre presente nelle manifestazioni degli anni ’70 e ‘80. Ricordavano la vecchia “Associazione dei Calderai” che, secondo la tradizione, aggregava un numeroso gruppo di artigiani con attività già molto prospera nel XVII secolo, soprattutto al Borgo Sottano e nel quartiere della Luna. Come i loro predecessori in occasione della settimana del Carnevale provvedevano alla distribuzione gratuita di grandi quantità di polenta e galupeřie gråse.
Sulle ali dell’entusiasmo provocato dai grandi successi delle prime edizioni, da quando nel 1976 si era tornati ad organizzare i festeggiamenti ed in conseguenza di una sana e gaudente rivalità, che nel frattempo era sorta tra i componenti delle varie contrade cittadine, ci si inventò una serie di altre maschere minori che rappresentavano allegoricamente personaggi caratteristici o speciali occupazioni nell’ambito delle borgate medesime. Nacquero così:
Il Borié dei Poggi San Siro
Carlo Marenco per il Centro Storico
Il Contadin della Piana San Pietro
Il Lampioné della Piana Buia
Il Muřinè per Filatoio e Nosalini
L’Òshto della Luna-Consolata
Il Pëshcadoř del Borgo Sottano
Tutte figure, purtroppo, cadute nel dimenticatoio da decenni.
Note:
I vocaboli in dialetto sono trascritti secondo lo schema di grafia per il piemontese indicato da Camillo Brero e Remo Bertodatti in Grammatica della lingua piemontese, parola, vita, letteratura (edizione L’Artistica 1993), sulla base della fonetica della parlata cebana, ad eccezione delle poesie che sono riportate fedelmente a regola dell’autore. Alcune fonti del carnevale sono tratte da Wikipedia, mentre per il carnevale cebano da Carvè ‘d Seva della Proloco del 1983.