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La Fiera di Santa Lucia, che si tiene a Ceva ogni 13 dicembre, ha origini remote. Infatti la prima attestazione di riferimento conosciuta risale al 1351. Lo storico cebano Giuseppe Barelli, che reperì la notizia dal testo di un autore rapallese di fine Ottocento (Arturo Ferretto, Documenti intorno alle relazioni tra Alba e Genova), riferì dell’esistenza di un documento di quell’anno con cui il sindaco di Ceva invitava il sindaco di Moncalieri in occasione delle fiere di San Bartolomeo e di Santa Lucia.
Effettivamente, da tempo immemorabile, uno degli aspetti peculiari di Ceva è stata la propensione al commercio, favorita dalla sua posizione geografica, che consentiva, oltre allo smercio dei prodotti locali, anche le trattative per tutto quanto poteva provenire dal vasto territorio che faceva capo alla Città. Inoltre era punto quasi obbligato di transito, dalla Liguria al Piemonte e viceversa, per tutta una gamma di derrate di lontana provenienza o comunque non tipiche del posto (sale, pesce di mare, olive, olio, agrumi, spezie e stoffe orientali, riso, zucchero ecc...).
Ulteriori documenti evidenziano l’esistenza di un complesso di attività lavorative che avevano il loro sbocco negli scambi commerciali con i paesi langaroli, la Riviera, le aree pedemontane e la pianura piemontese. In un atto del 1064, ad esempio, già si annotava la presenza di molini e battanderi (macchine mosse da una corrente d’acqua per rassodare tessuti e pelli). Nel 1235 il marchese Guglielmo Ceva vendette 20 mole da mulino, scalpellate nella cava delle Mollere, ad un commerciante di Sanremo. Da un ordinato municipale del 1351 si evince che il podestà di Ceva garantiva sicurezza e protezione da ladri e predoni a chi avesse partecipato alla Fiera di San Luca del 18 ottobre. Negli statuti del 1387 è espressamente concessa dai marchesi di Ceva, a seguito della richiesta del sindaco Vachino (...auditis et intelectis aliquibus supplicationibus eis factis pro parte comunis Ceve, videlicet per Vachinam Vacham de Ceva, sindicum ...) l’autorizzazione ad introdurre sul mercato locale le uve provenienti dai vigneti della Langa.
A dimostrazione del fervore che animava i traffici commerciali sui territori di loro pertinenza, già dal XIV secolo, ai marchesi Ceva era stato concesso il diritto di battere moneta. Nella seconda metà del Seicento il duca Carlo Emanuele II concesse le patenti di conferma per due fiere a favore della comunità di Ceva, in modo che in quelle date non potessero essere tenute fiere in altri luoghi che le potessero fare concorrenza.
Nell’Ottocento, come riferisce l’arciprete Giovanni Olivero nelle sue Memorie nel corso dell’anno si contavano ben cinque fiere: il 5 maggio, il 13 luglio detta Fiera di San Clemente, il 25 agosto, il 19 ottobre e l’ultima il 13 dicembre la Fiera di Santa Lucia. Forse per un errore tipografico alcune di queste date non corrispondono al santo di riferimento. Infatti il 13 luglio non si festeggia nessun san Clemente (può essere che ci fosse stato un nesso con il fatto che il 24 luglio 1786 venne traslato nella chiesa dell’arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina il corpo del san Clemente martire, ancor oggi ivi custodito), mentre la fiera di agosto era quella di San Bartolomeo, che si celebra il 24, cioè il giorno prima e quella di ottobre era la Fiera di San Luca, che ricorre il 18 e non il 19. Proprio in quel secolo un forte impulso all’attività commerciale cittadina venne dato dalle lavorazioni delle numerose filande e filatoi, che potevano contare sulle estese coltivazioni della canapa e del gelso. In Ceva era anche attivo uno stabilimento bacologico, con annesso un regio osservatorio sericolo, per il processo selettivo degli elementi propri della bachicoltura, da cui derivava un fiorente mercato di bozzoli. Sempre secondo l’Olivero si tenevano tre mercati durante la settimana: il martedì, il giovedì ed il sabato, mentre quello dei bovini veniva organizzato tutti i giovedì di aprile, maggio, giugno e luglio al borgo Sottano.
Naturalmente le manifestazioni fieristiche e mercatali attiravano costantemente una gran massa di gente ed alla vasta schiera di compratori e mercanti, ambulanti, imbonitori e faccendieri fecero nei secoli sovente da contorno, a rendere più variegato e caotico tutto l’insieme, saltimbanchi, burattinai e giocolieri, poeti e cantastorie, mendicanti e zingari, ciarlatani di ogni tipo, usurai, mariuoli e tagliaborse. Tant’è che il ruolo di gendarmi, gabellieri, mediatori e di tutti quelli che erano deputati all’ordine pubblico ed al regolare andamento delle trattative era piuttosto impegnativo.
Quasi certamente la Fiera di Santa Lucia, che ancora nei primi anni del secolo scorso si prolungava per undici giorni, fino alla vigilia di Natale, venne istituita perché coincideva con il periodo in cui terminava il ciclo di essicamento delle castagne, uno dei maggiori prodotti che caratterizzarono da sempre l’economia agricola dei nostri borghi di alta collina e di montagna. Infatti dopo la raccolta, la cernita, il passaggio sul graticcio dell’essiccatoio che poteva durare anche un mese, la sbucciatura con il sacco di canapa sbattuto o con il pestello e la separazione dalla pula, le castagne secche, dette anche bianche, erano pronte per essere immesse sul mercato verso i primi di dicembre. Sicuramente era il prodotto principale che caratterizzava la fiera e la collocazione fisica dei venditori, che giungevano con i loro carri stracolmi di sacchi, era sulla piazza del municipio. Non infrequenti erano le diatribe che si innescavano e le successive lamentele che comparivano sui periodici dell’epoca, circa l’ingombro che causavano al passaggio dei carriaggi, le bancarelle di altre mercanzie che si assiepavano lungo le strette vie di accesso alla piazza, a testimonianza che alla compravendita delle castagne bianche era riconosciuta la priorità su tutto il resto. Appare superfluo sottolineare che, parallelamente alle contrattazioni, continuavano per giorni anche lauti momenti conviviali, con buon tornaconto per i numerosi ristoratori e locandieri del posto. Dopo i primi decenni del Novecento, che furono caratterizzati da massicci flussi migratori verso la Francia ed i paesi d’Oltremare, con i primi conseguenti abbandoni delle zone di montagna, da alcune malattie del castagno e dalla conversione a terreno da pascolo di molte aree boschive, si assistette alla perdita del ruolo strategico della castagna nell’economia agricola montana.
La Fiera di Santa Lucia, santa siracusana del III secolo, venne così ad assumere progressivamente un carattere più indeterminato, mirando maggiormente in termini qualitativi, quantitativi ed espositivi alla globalità di prodotti, merci e manufatti commerciabili su piazza, piuttosto che considerare preminente una specifica produzione come era avvenuto in precedenza. In particolare riguardo venne comunque tenuto l’allevamento del bestiame, soprattutto bovino, con apposita regolamentazione dei relativi mercati, approvata dall’Amministrazione comunale nel mese di marzo del 1915 e con l’abituale indizione di concorsi a premi per i capi migliori. Il settore delle macchine agricole invece ebbe un significativo incremento a partire dal dopoguerra, quando anche i contadini delle nostre contrade non poterono più fare a meno di meccanizzare la loro attività. La consuetudine di premiare gli esemplari qualitativamente eccellenti si è mantenuta fino ad oggi, nel tempo in cui la Fiera di santa Lucia è rimasta in Ceva l’unica occasione dell’anno nella quale gli allevatori del circondario, rimasti pochi per la verità, possono portare le loro “bestie” in esposizione e venderle al miglior offerente, mantenendo così almeno una piccola peculiarità nell’ambito di una rassegna fieristica, ormai generalizzatasi in maniera esponenziale.
Oggi la manifestazione si divide in: Antica Fiera di Santa Lucia, che riguarda il bestiame e Fiera Mercato, che riguarda l’esposizione degli ambulanti.
All’inizio degli anni Duemila, l’assessore Silvio Gamba chiese al pittore cebano Tanchi Michelotti di disegnare il logo della fiera che tutt’oggi è in uso.