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Il combattimento della Pedaggera
Nonostante le probabili incertezze per il persistente timore di una controffensiva dell’armata austriaca nel settore delle due valli Bormida, la divisione Augereau, divisa su due colonne (in tutto circa 5.000 uomini) comandate rispettivamente dai generali Joubert e Beyrand, si mise in marcia per raggiungere Paroldo e La Pedaggera e scendere da nord est su Ceva. Le colonne sfilarono davanti al generale in capo. La presenza di Joubert conferma che la ferita alla testa riportata il 13 davanti a Cosseria non fu grave e che probabilmente era stata causata da una pietra e non da un colpo di fucile. Anche la brigata Rusca provenendo da Priero a Prato Sottano si divise in due colonne e, attraversato il Bovina, giunse a Paroldo.
Il generale Dommartin inviò il suo vice generale Dujard con otto cannoni da quattro libbre e tre obici da sei pollici alla volta di Montezemolo. L’artiglieria giunse sull’altura circa alle 9 del mattino e avrebbe dovuto proseguire per raggiungere i generali Rusca e Beyrand e mettersi a loro disposizione quando inaspettatamente apparve Bonaparte con lo stato maggiore. L’apparizione del comandante in capo infiammò gli animi e gli artiglieri inorgogliti sfilarono a tamburo battente.
Nel frattempo a Ceva nel castello dei marchesi Pallavicini, dove aveva preso quartiere il generale Colli, l’atmosfera era cupa perché era giunto il tenente Morozzo della Rocca con le notizie, oltre che della resa di Cosseria, anche del fallito colpo di mano di Wukassovich. Le sue illusioni stavano svanendo e probabilmente ebbe a pensare che se d’Argenteau non si era degnato di appoggiare Wukassovich, come avrebbe egli potuto sperare in un suo aiuto? Il buon Colli evidentemente predicava bene e razzolava male perché anch’egli non si era assolutamente preoccupato di correre in aiuto di Provera e del Carretto che resistevano a Cosseria. Se ne avesse avuto l’acume e il coraggio, sicuramente gli eventi avrebbero preso un’altra piega.
A rendere più intenso il suo avvilimento giunse il suo aiutante di campo, capitano Seyssel d’Aix, avvertendolo che la ridotta avanzata Sanguineti, che costituiva un punto nevralgico del sistema difensivo del campo trincerato di Ceva, era rimasta scoperta perché il generale Bellegarde si era ritirato nella ridotta Mondoni con il generale Vitale.
Evidentemente anche i comandanti in sottordine avevano assimilato la strategia del loro comandante in capo. Dopo un rapido sguardo alla carta Colli non decise di tentare di riprenderla bensì solo di batterla con il fuoco dell’artiglieria e fece preavvertire il capitano Melle di puntare i quattro pezzi di cui disponeva sulla ridotta rimasta sguarnita e che era sicuramente in procinto di essere occupata dai francesi.
Aveva così inizio la battaglia cosiddetta della Pedaggera, posizione chiave che controllava da est e dall’alto l’accesso a Ceva e che Bonaparte considerava la chiave di volta dell’intero sistema difensivo piemontese perché era l’unica che consentisse di raggiungere il forte di Ceva dall’alto.
Il generale piemontese Brempt racconta nel suo rapporto sul fatto d’arme che l’attacco francese cominciò a mezzogiorno. E’ a quell’ora infatti che i cacciatori piemontesi ingaggiarono un primo vivace e durissimo combattimento nei boschi presso Arbi, sulla via che da Montezemolo conduce alla Pedaggera. Sotto il tiro dei cacciatori del colonnello Colli trincerati dietro i barbacani caddero i primi repubblicani che caricarono comunque alla baionetta le posizioni piemontesi, costringendo i difensori a ripiegare su due compagnie croate che erano schierate davanti alla ridotta della Pedaggera.
Il colonnello Portier accorse allora dalla Pedaggera con due compagnie del reggimento del Genevese per chiudere la breccia che s’era aperta mentre peraltro il generale Joubert, i cui soldati furono impressionati dalla resistenza opposta dai cacciatori, sospese temporaneamente l’attacco della brigata, si ritirò sotto la protezione della 84ª semibrigata e portò le sue truppe nella valle del Belbo.
Quasi contemporaneamente più a sud entrava in azione la brigata Beyrand che partendo da Paroldo attaccò con due colonne separate la ridotta Govone, presidiata dal 1° battaglione del reggimento di Acqui del colonnello Grimaldi, che si difese con straordinario coraggio ma non riuscì ad impedire la congiunzione delle colonne di Joubert e di Beyrand che ripresero i tentativi per infrangere la resistenza piemontese nelle ridotte appunto della Pedaggera e di Govone.
Durante uno di questi assalti il bernese Bellet, comandante della 39ª semibrigata, fu ferito a morte mentre il 3° battaglione della 25ª semibrigata del generale Beyrand, riusciva finalmente a sfondare le difese della ridotta Govone. Tra i piemontesi, il colonnello Grimaldi fu gravemente ferito ed immediatamente sostituito dal tenente colonnello marchese Ghilini, che tentò di far ripiegare gli uomini verso la ridotta Sanguineti, purtroppo nel frattempo come abbiamo detto occupata dagli uomini del generale Rusca.
Ghilini lanciò allora i suoi uomini a passo di carica contro la ridotta ed i francesi disorientati non fecero a tempo a schierarsi per sostenere l’attacco. Bellegarde fece affluire dalla ridotta dei Mondoni tutto il reggimento di Savoia che s’unì con gli uomini dell’Acqui e insieme marciarono contro la brigata Rusca.
Frattanto, il generale Joubert aveva lasciato la valle del Belbo dove si era ritirato dopo il primo scontro con i piemontesi alla Pedaggera e venne a contatto con i granatieri reali del colonnello Mazzetti trincerati ai Giorgini. Anche qui lo scontro fu durissimo.
Gli sforzi francesi non avevano alcun effetto di fronte al valore dei piemontesi il cui morale evidentemente non era stato intaccato dall’abbandono poco glorioso di Montezemolo imposto dal comandante in capo. Il reggimento provinciale del Genevese ed il suo colonnello Portier fecero prodigi.
La battaglia della Pedaggera non era peraltro ancora finita. Alle tre del pomeriggio il reggimento di Vercelli che si trovava a Mombarcaro abbandonò la posizione e scese nella valle del Belbo. Il colonnello del Carretto conte di Millesimo, che lo comandava, avendo sentito infatti spari sulla Langa, aveva deciso di risalire il pendio per raggiungere la ridotta Berico e il reggimento di Belgioioso alla Pedaggera. Nessun documento finora è stato peraltro reperito negli archivi per giustificare quel movimento che fu comunque provvidenziale. I francesi si diedero alla fuga, temendo di essere attaccati alle spalle e al fianco destro. Lo stesso Joubert paventò un contrattacco austriaco in forze degli imperiali e seguì i suoi soldati nella fuga. Anche gli uomini di Beyrand si ritirarono dalle posizioni raggiunte: tutto il dispositivo francese sulla cresta della Langa era in rotta.
La brigata Rusca minacciava però ancora di dividere i piemontesi della ridotta avanzata della Pedaggera dagli altri schierati in difesa di Ceva. La sua colonna di destra si era portata dapprima al bric della Comma e poi alla ridotta Govone dove aveva tentato l’aggiramento del 1° battaglione del reggimento di Acqui; quella di sinistra aveva raggiunto bric Sanguineti come abbiamo visto.
Dalla ridotta dei Mondoni il colonnello Bellegarde si avvide dell’attacco francese e mandò il reggimento di Savoia, quello di Stettler e i granatieri reali che aveva ai suoi ordini, appoggiati dall’artiglieria del colonnello Melle che copriva il settore con quattro cannoni. I difensori della ridotta Govone uscirono più volte all’assalto contro il fianco destro francese, ma tutte le volte furono respinti dagli uomini del generale Rusca. Durante uno degli scontri più sanguinosi, fu colpito a morte il barone Moron dei granatieri reali. Il combattimento volse però a favore dei piemontesi quando il colonnello Melle con i suoi quattro cannoni centrò la ridotta Sanguineti nel frattempo occupata dai francesi di Rusca, facendone strage. Erano giunte le cinque della sera e Rusca, venuto a sapere che il generale Joubert non era riuscito ad impossessarsi delle fortificazioni della Pedaggera, decise anch’egli di ritirarsi e si accampò a Sale delle Langhe in attesa di ordini.
Sulla Pedaggera tutto era finito e a favore dei piemontesi. Il presidio al comando del generale Brempt aveva difeso con successo la posizione anche se a prezzo di forti perdite. I francesi non erano riusciti ad aggirare Ceva da nord ed era la seconda volta dopo Cosseria che gli uomini di Bonaparte si scontravano in campo aperto con gli uomini di Colli e per la seconda volta non riuscivano ad aver ragione di loro nei tempi che Bonaparte aveva previsto.
Il merito andò a quei corpi piemontesi che, pur inferiori di numero, si distinsero per spirito altamente combattivo e senso del dovere, infliggendo ai francesi forti perdite umane. Fu un’ulteriore dimostrazione che unità intraprendenti e coraggiose come lo furono anche quelle di Wukassovich a Dego potevano aver ragione dei francesi.
L’attacco francese era dunque fallito su tutta la linea, sia davanti alle ridotte dei Mondoni e di Testanera sia davanti a quella della Pedaggera. La maggior parte degli assalitori fu costretta a ripassare il Bovina e gli uomini della divisione Augereau dovettero ritornare a Paroldo. Il complesso degli scontri che va sotto il nome di battaglia della Pedaggera costò ai francesi più di 600 uomini tra uccisi e feriti mentre i piemontesi persero 270 uomini nelle ridotte.
Il successo aveva sollevato il morale dei piemontesi e Bonaparte era assalito da momenti di violenta collera e non voleva riconoscere lo scacco che le truppe piemontesi del re delle marmotte (Vittorio Amedeo III) gli avevano inflitto. Nei rapporti tentò di dissimulare la verità non volendo ammettere che un esercito vincitore potesse prendere la grave decisione di ritirarsi. Il colonnello Rüstow fa giustamente osservare che... gli storici francesi della guerra del 1796 coprono con un velo il periodo che va dal 15 al 21 aprile; lo stesso Bonaparte, nelle Memorie di Sant’Elena, ripercorre solo brevemente questi tempi. Gli austriaci che non vi hanno partecipato direttamente l’hanno sempre mal presentata. I racconti piemontesi su questi giorni invece ci fanno sempre brancolare in un’oscurità volontaria... ma le indicazioni velate dei francesi sono sempre spiegate con grande chiarezza dalle fonti piemontesi.
La situazione sugli altri fronti caldi, le valli del Tanaro e delle due Bormide, era in evoluzione. Lungo la valle del Tanaro il generale Sérurier aveva diviso i suoi uomini su due colonne, l’una verso Mombasiglio e Lesegno e l’altra verso Malpotremo. Questa seconda scese per la valle del Ricorezzo sul villaggio delle Mollere, arrivò fino a Sale (delle Langhe) collegandosi così con le unità della brigata Rusca appartenente alla divisione di centro di Augerau. Napoleone non si smentiva: concentrare costantemente e incessantemente i reparti dove voleva gravitare con lo sforzo principale e puntare a tal fine su una mobilità dei reparti sconosciuta agli avversari che se li vedevano arrivare addosso da tutte le parti.
La divisione Laharpe intanto, a causa dei timori di Bonaparte di un contrattacco da est delle truppe imperiali, marciava verso Sassello e Mioglia alla ricerca di un nemico però inesistente e Masséna il 16 aprile a Dego faceva riposare i suoi uomini.
Violenze francesi sui civili
Poco si sa su quanto veramente accadde quella sera nei paesi del cebano che furono costretti ad ospitare le truppe francesi, ma le poche notizie lasciateci dai parroci a margine del Libro dei morti ci dicono che coloro che avrebbero dovuto portare la libertà ad un popolo oppresso dalla tirannia sabauda si comportarono come conquistatori e predatori. Le truppe devastarono chiese, distrussero fonti battesimali, profanarono reliquie e s’impossessarono di tutto ciò che era di valore. Alcuni esempi di cui esistono testimonianze locali. A Paroldo tre persone furono uccise senza motivo dalla soldataglia. In una povera casa alcuni soldati che stavano cercando cose di valore, stizziti per aver trovato quasi niente, buttarono dalle finestre i mobili ed i materassi, vi appiccarono il fuoco e uccisero la proprietaria, una vedova ultracinquantenne di nome Domenica. Un uomo, il cui nome rimane sconosciuto, vestito con l’abito talare ma non appartenente al clero locale, fu ucciso nella strada e un sessantenne fu trovato ucciso con un colpo di fucile al petto in località Prato Sottano. A Sale delle Langhe i francesi scavarono negli orti e nei cortili convinti che il denaro fosse stato nascosto sotto terra.
Anche i comandanti non erano da meno. Il generale Rusca andò su tutte le furie sentendo suonare a martello la campana della borgata Bricco, ordinò ad una pattuglia di buttare dal campanile la campana ed il campanaro ed emanò un’ordinanza al comune per la consegna di 100 mine (23 quintali) di grano e 500 lire, pena la distruzione del borgo. Il consiglio comunale inviò in delegazione a Saliceto il parroco don Marengo, cinquantaseienne, originario di Alba, il notaio G.B. Parochia e l’agrimensore ventiseienne Ramazza ma senza ottenere alcunché.
I contadini erano indifferenti alle idee rivoluzionarie e ciò che furono costretti a soffrire, subire e sopportare fece sviluppare in fondo al loro cuore un sentimento di diffidenza, di ostilità e di odio nei confronti dei francesi.
I piemontesi abbandonano Ceva
Il comandante in capo e gli ufficiali piemontesi non credettero nella loro vittoria alla Pedaggera. Ebbero anzi il dubbio che la ritirata di Augereau su Paroldo fosse uno stratagemma creato per attirare le truppe in campo aperto e non lo inseguirono in forze. Perdendo la precedente incrollabile fiducia nella posizione di Ceva, ritennero che la loro via di ritirata fosse compromessa soprattutto perché la divisione Sérurier avrebbe sicuramente raggiunto la confluenza del Corsaglia con il Tanaro che dista non più di quattro chilometri da Ceva. Presumevano inoltre non senza ragione che il giorno seguente Augereau avrebbe rinnovato gli attacchi alla Pedaggera e le due divisioni comandate da Masséna (Laharpe e Meynier) disimpegnandosi da Dego, non avrebbero tardato ad arrivare, seguite dalla cavalleria di Stengel per aggirare da nord le posizioni di Ceva.
Possiamo ben immaginare quale fossero lo stato d’animo e le sensazioni di Colli e del suo stato maggiore di fronte ad un’offensiva che non aveva precedenti e appariva come un fiume in piena e straripante in tutte le direzioni. E’ certo però che l’inazione e la remissività del comando piemontese, a dispetto delle prove di valore e dei risultati dei reggimenti impegnati negli scontri con le truppe francesi, contribuivano ad ingigantire la portata della manovra napoleonica. Lo schieramento piemontese a Ceva sarebbe stato indubbiamente superato e sarebbe stata compromessa la possibilità di interdire al nemico la direttrice verso Torino, che era la miope preoccupazione di Colli e del re Vittorio Amedeo.
Nell’armata piemontese e in particolare tra gli ufficiali regnava lo scoramento. Temevano di essere circondati e la truppa, che già si era trovata a combattere senz’acqua nella ridotta di Testanera, si lamentava della mancanza di munizioni. Lo scetticismo di Colli in merito ad un’eventuale tentativo di Beaulieu di portargli aiuto aumentava e ne ebbe conferma nella notte tra il 16 ed il 17 aprile, quando venne a sapere che truppe di Bonaparte appartenenti alla divisione Laharpe, evidentemente non più necessarie a Dego, erano giunte a Saliceto e a Monesiglio.
Ascoltò con favore i consigli di coloro che gli erano attorno, e diede l’ordine di ripiegare anche da Ceva. Avrebbe potuto scegliere la via postale di fondo valle lungo il corso del Tanaro attraverso Dogliani che sarebbe stata più conveniente per raggiungere rapidamente Cherasco e Torino, ma avrebbe così sguarnito lo spazio compreso tra il Tanaro e le Alpi e rischiato di lasciare senza difesa l’importante centro di Mondovì, dove si trovavano grandi depositi dell’armata.
Optò per la ritirata lungo la direttrice di Lesegno – San Michele per avere il tempo di occupare la forte posizione della Bicocca davanti a Mondovì mettendo tra le sue truppe e quelle francesi il corso d’acqua del Corsaglia.
Ritenne infatti, prendendo posizione attorno a Mondovì, di poter dare copertura alla capitale del regno, sapendo che Bonaparte non si sarebbe fidato di proseguire verso Torino lungo la via postale lasciando una forza così considerevole sulla sua sinistra e alle sue spalle. Avrebbe avuto inoltre la possibilità di collegare ai suoi reparti quelli che si trovavano con il principe di Carignano alla Madonna dell’Olmo nei pressi di Cuneo e in val Maira ai piedi delle Alpi.
Temeva il pericolo che queste ultime potessero essere accerchiate e battute isolatamente dalle divisioni Macquard e Garnier delle quali non si conosceva la consistenza reale e che si stavano preparando a scendere dal Colle di Tenda. Non c’era tempo da perdere se non si voleva esser superati in velocità da Masséna a Castellino o da Sérurier sulle rive del Corsaglia e se si voleva aver ancora il tempo di scegliere il luogo più propizio per una ipotetica battaglia decisiva. Erano le tristi decisioni di un comandante ormai senza grinta, se mai l’avesse avuta.
Approfittando dell’oscurità, Colli ordinò di distruggere i forni e i magazzini e di abbandonare le ridotte di Torresina, della Pedaggera e di Testanera ed al generale Vitali diede ordini perentori: ... a Voi il compito di guidare la retroguardia. Avete a disposizione il reggimento di Acqui ed i cacciatori nizzardi. Il colonnello Mazzetti con i granatieri reali ed il maggiore Radicati con i granatieri delle truppe leggere dovranno portarsi, passando per Niella, a San Michele e mettersi agli ordini del generale Dichat. Vi raccomando, per ragioni strategiche, di varcare il ponte in località Arassi non prima di mezzodì e non dopo le due pomeridiane...
Le ragioni erano quanto mai realistiche. All’una del pomeriggio i due passaggi sui fiumi sarebbero stati distrutti. In particolare, la demolizione di quello di Niella in muratura doveva esser condotta in modo da impedire ai francesi di passare ma contemporaneamente permettere ai genieri piemontesi di ricostruirlo senza eccessive difficoltà. Il padre cappuccino Cesareo avvertì l’esperto architetto Borio di Niella di essere a tal fine presente.
Le truppe che il giorno precedente avevano tenuto vittoriosamente testa all’armata francese si ritirarono ora verso Castellino e Roascio per attraversare il Tanaro nei pressi della Rocca d’Arassi e sui ponti che erano stati gettati sul Mongia nei pressi di Lesegno e sul Corsaglia nei pressi di Prata, e si riunirono sulle alture che costeggiano questo fiume.
L’ala sinistra comandata da Brempt invece ripiegò per Murazzano-Dogliani e Carrù verso Narzole e Cherasco. Qualche storico afferma che il movimento fatto dal Brempt sia stato eseguito non in armonia con gli ordini ricevuti da Colli. Ciò pare improbabile perché, pur supponendo che l’ordine di ripiegamento sia stato improvviso e che le comunicazioni siano state carenti, il ripiegamento di Brempt lungo il Tanaro assicurava il controllo anche su quella strada e ciò sicuramente era nelle intenzioni del comandante in capo.
Pur fatta con il favore delle tenebre, l’improvvisa ritirata non ingannò i francesi e Augereau, informato di ciò che stava accadendo, fece muovere su Ceva la 4ª semibrigata leggera di Beyrand.
Sulla Langa, appena i francesi s’accorsero che i piemontesi al comando di Brempt iniziavano a ritirarsi li attaccarono nei pressi della cappella diroccata di San Sebastiano che si trovava a mezza via tra la ridotta Govone ed il paese di Torresina. La retroguardia piemontese era formata dal reggimento di Acqui al comando del maggior generale conte Vitale che all’arrivo dei francesi si fermò e, dopo aver risposto con un intenso fuoco di fucileria, caricò alla baionetta e fermò l’avanzata nemica.
Lo scontro fu molto aspro e caddero parecchi uomini da ambo le parti.
In quello scontro cadde colpito in fronte il maggiore marchese di Cavoretto molto apprezzato per il suo valore, ricordato come cittadino virtuoso e valente militare.
Osservando gli ordini ricevuti di non attraversare il Tanaro prima del mezzodì, Vitale decise di ritirarsi su Torresina e trincerarsi tra le case. Beyrand, capito quali fossero le intenzioni del suo avversario, non volle rischiare un inutile scontro e desistette dall’ordinare l’assalto al villaggio, che avrebbe occupato quando sarebbe stato abbandonato dai piemontesi che battevano in ritirata. Ciò facilitò il compito del generale Vitale che poté condurre i suoi uomini in file serrate a Castellino dove attese il momento propizio per scendere a valle a Pian Torre e far traghettare i suoi uomini all’ora stabilita. Quando l’ultimo fante raggiunse la riva opposta del Tanaro i due barconi furono resi inservibili e l’architetto Borio dette il via alla distruzione del ponte sul Corsaglia, lasciando intatti i due pilastri costruiti sulle sponde.
Il generale Vitale continuò la sua marcia e nel tardo pomeriggio arrivò al Castellazzo dove era ad attenderlo il tenente colonnello La Boissière con il reggimento del Chiablese.
Fallito l’aggiramento delle truppe piemontesi, Augereau entrò in Torresina e nei trinceramenti attorno e vi si stabilì. La brigata Fiorella della divisione Sérurier che marciava verso Lesegno cambiò direzione verso Ceva e la sera di domenica 17 aprile entrò in città.
Ufficialmente la città di Ceva fu occupata verso mezzogiorno del 18 aprile anche dalla 29ª semibrigata del generale Rusca che si schierò sulla piana della Soraglia, alle spalle del Campanone (emblematico monumento della città di Ceva) e si accantonò nelle cascine dei Francolino, dei Davico, dei Ferro e degli Albarello che si trovavano nella zona, poiché era sprovvista di tende.
Bisogna riconoscere che fin dall’inizio le cose erano andate secondo i suoi disegni: appena arrivato erano venuti ad ossequiarlo i serviteurs de ville inviatigli dalla municipalità sulla via delle Mollere mentre la municipalità stessa l’attendeva alle porte della città e il conte Sauli lo invitava ad entrare. Alle dieci del mattino, allorché Rusca si accingeva ad entrare, qualche soldato piemontese che s’era attardato sparò su di lui.
Considerando ciò come un tradimento, Rusca mandò un contadino in città annunciando che l’avrebbe data alle fiamme per punirla di aver attirato un generale francese in un’imboscata. Fortunatamente i membri della municipalità, e forse tra costoro vi era chi aveva familiarità con lui, riuscirono a calmarlo, a farlo ragionare ed a spiegargli l’equivoco.
Rusca come sappiamo era personaggio colto in quanto medico ed era nato suddito sabaudo a Briga Marittima, dove possedeva una grande proprietà immobiliare e per i suoi affari faceva capo a Ceva dove allora esisteva l’ufficio del catasto sabaudo, ed aveva in quel luogo numerosi conoscenti ed amici. Il generale decise astutamente di occupare la città cercando di evitare l’uso delle armi e prima che il Campanone suonasse il mezzogiorno ordinò alla banda della sua brigata di suonare la grenadière (che significa fascetta del fucile) marcia ben conosciuta in Piemonte.
A Priero aveva incassato il contributo di guerra in numerario, a Ceva impose una contribuzione in viveri e non rimase sorpreso che in questa città gli fossero anche cambiati gli assegnati con oro al corso corrente.
Un’atmosfera di attesa regnava sotto i portici di Ceva insolitamente deserti in quella mattina di domenica 18 aprile; il rullare dei tamburi non riusciva a coprire il suono delle campane delle chiese di Ceva che chiamavano i cittadini al dovere religioso. Poche persone uscirono sull’uscio e le donne, avendo avuto notizia del barbaro comportamento della truppa, rimasero in casa. Trascorse tempo prima che la gente si facesse animo ed uscisse dalle case.