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Il forte di Ceva è mantenuto in mano piemontese
Le truppe di campagna avevano abbandonato Ceva ma il forte fu mantenuto in mani piemontesi sotto il comando del brigadiere d’armata conte Filippo Francesco Bruno di Tornaforte, vecchio ufficiale la cui età avanzata non aveva intaccato il carattere bellicoso. S’era aggiunto alla guarnigione il conte di Salmour con 248 uomini del reggimento di Mondovì, 226 uomini del battaglione di Stettler, qualche distaccamento di altri corpi e qualche pezzo di artiglieria. Come si apprende da una lettera del 18 aprile inviata a Bonaparte da Sérurier questi, un’ora e mezza prima dell’alba dello stesso giorno, aveva intimato la resa al governatore. La risposta di Tornaforte fu un fiero rifiuto ma fu preso impegno di non sparare sulle truppe francesi che si trovavano nella città. Questo impegno testimonia la sua correttezza militare anche se la decisione avrebbe favorito le operazioni dei francesi a cui ben poco importava la vita della popolazione, purché i loro piani non venissero intralciati. Era infatti evidente che una resistenza protratta per parecchi giorni avrebbe rallentato la marcia ed immobilizzato l’armata.
Entrato in città alla testa delle truppe, anch’egli fece subito partire uno dei suoi aiutanti di campo verso il forte per parlamentare con il governatore della cittadella e chiederne la resa ma ricevette lo stesso netto rifiuto. Schierò allora alcune unità sui bric Bajone e Faja e, pensando di intimidire la guarnigione, fece schierare sul primo due cannoni da quattro libbre e due obici, con i quali infrangendo la tregua aprì il fuoco sul forte. I colpi degli obici non riuscirono a raggiungere il muraglione di cinta mentre i cannoni mandarono le loro palle a colpire le mura sotto il camminamento di ronda. Immediata fu la risposta dell’artiglieria da fortezza piemontese di maggior calibro che ad un ordine del capitano Barralis aprì il fuoco e costrinse al silenzio l’artiglieria avversaria.
Anche una batteria di sei cannoni schierata in fretta per battere il forte fu a sua volta colpita con tale precisione che i pezzi furono distrutti ancor prima che potessero sparare un sol colpo. Caddero ben sedici artiglieri francesi con il loro capitano e solamente tre sopravvissero. Terminò in questo modo la giornata del 18 aprile a Ceva.
Bonaparte arrivò a Ceva mentre stavano accadendo questi fatti e memore dell’esperienza fatta a Cosseria riconobbe l’inutilità ed il pericolo di un attacco al forte perché non erano ancora a disposizione idonei equipaggiamenti d’assedio.
Sapeva che il generale Rusca era di origine piemontese e che aveva amicizie in città e, pensando ad un’azione politica piuttosto che militare, gli consentì di patteggiarne la resa anche se gli diede l’incarico di un attacco al forte. Gli permise altresì di annunciare che la contribuzione di guerra imposta alla città era ridotta di un terzo e Rusca ebbe tutto il beneficio d’immagine di questa decisione. Anche nei giorni successivi le richieste di resa si susseguirono ma inutilmente. Dopo lo scontro di San Michele, che avverrà il 20 aprile all’una del mattino, Bonaparte darà ordine ad Augereau di mandare 1.200 uomini a sostituire quelli di Dommartin nell’assedio al forte aggiungendo: ... E’ necessario, sotto tutti i punti di vista, forzare il forte oggi stesso.
Ancora il giorno dopo da Mondovì manderà una nuova richiesta di resa con la minaccia di far passare l’intera guarnigione a fil di spada. Sarà anch’essa rigettata e la fortezza di Ceva si arrenderà solamente il 29 aprile, in forza delle clausole dell’armistizio di Cherasco e su ordine reale. Il 29 aprile la cittadella aprirà quindi le porte non cedendo al nemico ma purtroppo agli ordini del proprio re e il conte Bruno di Tornaforte uscirà dalla fortezza con tutti gli onori militari, a tamburo battente e bandiere spiegate rientrando in Piemonte con le sue armi, fedele al suo sovrano che purtroppo si umiliava di fronte ad un giovane generale, fino ad allora praticamente sconosciuto. Il forte tornerà nuovamente in possesso dei Savoia nel 1799, come attesta la lettera inviata dal nuovo comandante del forte di Ceva al conte di Chialamberto, ministro di Stato di S.M. il re di Sardegna, conservata nell’archivio di Stato di Torino.
I movimenti delle truppe francesi sul fronte degli austriaci
Nel settore del fronte contro gli austriaci, come abbiamo visto, dopo il secondo combattimento di Dego, Bonaparte si era fatto più prudente e rimase nell’incertezza ancora fino a quando i piemontesi abbandonarono Ceva senza che gli austriaci accorressero in loro aiuto. Mentre il giorno 16 aprile la divisione Augerau si batteva sui trinceramenti della Pedaggera, Laharpe effettuava esplorazioni verso Mioglia e Masséna, sempre fermo a Dego, aveva ordine di appoggiarlo in caso di un’inaspettata presenza di forze austriache. Se Laharpe fosse stato costretto a ritirarsi avrebbe dovuto attestarsi a Montenotte inferiore, località cui Bonaparte dava più importanza che a Dego. Quello stesso giorno 16 aprile il generale Stengel arrivava a Carcare con tre reggimenti, vi lasciava quello più debole e schierava gli altri due a Cairo.
Nella notte tra il 16 ed il 17 l’aiutante generale Franceschi che seguiva Laharpe informava Bonaparte che non s’era trovata traccia del nemico e che l’armata austriaca si era ritirata su Acqui. In parte rassicurato il 17 aprile fece ritornare la divisione Laharpe da Mioglia verso Dego, dove avrebbe trovato l’appoggio della 99ª semibrigata. Il compito affidato a Laharpe era di controllare la posizione e mandare alcune pattuglie in ricognizione sulla strada di Mombarcaro, non tralasciando contemporaneamente di controllare la via che proveniva da Acqui.
La brigata Victor marciò da Pontinvrea su Cairo dove già si trovava il generale Stengel, che era in attesa dei reggimenti di cavalleria che stavano marciando sulla via della cornice.
Bonaparte non trascurò nel frattempo di preoccuparsi della non belligeranza di Genova e inviò una lettera in cui esaltava la forza e le vittorie della sua armata al fine di scoraggiare qualunque tentativo di tradimento. Sempre diffidando della Repubblica genovese, Bonaparte ordinò altresì al generale Cervoni, che la sera precedente aveva nominato comandante della piazza di Savona in sostituzione del colonnello Marmet comandante del 22° reggimento cacciatori, di assicurarsi se gli austriaci avessero abbandonato Voltri. In caso affermativo, avrebbe dovuto mandare un centinaio di cavalleggeri verso Genova, fare effettuare una ricognizione su Stella e sollecitare l’arrivo dell’artiglieria d’assedio che avrebbe dovuto esser sbarcata a Loano.
Bonaparte non tralasciava inoltre di autorizzare approvvigionamenti anche in quel settore. Ad esempio la 14ª semibrigata che si trovava a Sassello impose a quel paese gravose contribuzioni in denaro (mille scudi), vino, grano e mezzi di trasporto.
L’offensiva contro l’armata sarda era ripresa con successo e non c’erano avvisaglie di reazione da parte degli austriaci sia lungo la costa sia nelle due valli Bormida, ma ancora il 18 aprile Bonaparte non era completamente sicuro di non avere sorprese sul fronte dell’armata imperiale. Dispose quindi che Masséna rimanesse guardingo in quel settore, come appare evidente dalla lettera che gli scrisse il mattino di quel giorno. Il 17 aprile Bonaparte aveva deciso comunque di lasciare Carcare, dove rimase un distaccamento della 55ª e la cavalleria, e di trasferire il quartier generale a Saliceto.
ll generale Stengel inviò a Priero il generale Beaumont con i reggimenti di cavalleria che si trovavano a Cairo e a Carcare. Sempre il 18 la divisione Laharpe marciò verso Santa Giulia e Mombarcaro e prese senza difficoltà posizione a San Benedetto Belbo, da dove avrebbe potuto controllare la lunga cresta di colline tra il Tanaro e la Bormida ed intervenire per impedire un eventuale congiungimento delle due armate avversarie, la piemontese e l’austriaca. Il maggiore Buttelier rimase con i cacciatori di Nizza nei boschi attorno alla scarpata d’Arassi, dove già si trovava un battaglione di granatieri reali comandati dal maggiore Cigliano appoggiati da cinque cannoni da otto libbre puntati contro la sponda opposta del Tanaro.
Sotto il profilo logistico, dopo questi spostamenti per l’armata francese non era più indispensabile la linea di comunicazione attraverso Savona perché aveva a disposizione quelle di Garessio-Albenga e di Ormea - Oneglia.»