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Associazione Ceva nella Storia - 45. Superstizioni, credenze, miti e leggende

45. Superstizioni, credenze, miti e leggende     Torna all'indice


Le superstizioni e le credenze popolari, erano molto diffuse nel passato e oggi non sono del tutto scomparse. Molte hanno avuto origine dall’ignoranza o dal timore di qualcosa di sconosciuto, già nella notte dei tempi. La paura di tutto ciò che non si capiva, era alimentata dalla religione e dal potere laico. Regnanti, sacerdoti e stregoni facevano leva sulla sprovvedutezza del popolo, coprendo un ruolo importante e necessario alla società stessa.
Col passare del tempo, molte di queste superstizioni e credenze si sono trasformate in leggenda ed oggi hanno un grande valore antropologico.
Il termine superstizione deriva dal latino superstitiònem, composto da sùper (sopra) e stìtio (stato), sulla base di "stàre" o "sìstere"; venne impiegato da Cicerone nel De natura deorum per indicare la devozione patologica di chi trascorre le giornate rivolgendo alla divinità preghiere, voti e sacrifici, affinché serbi i suoi figli "superstiti" (cioè sani e salvi). Da qui il termine, come espressione di atteggiamento di pavido uso del soprannaturale con lo scopo di scampare i pericoli.
In passato, soprattutto nelle campagne, si credeva a streghe e diavoli e ogni volta che accadeva qualcosa di strano, si pensava che fosse opera del maligno. La strega in genere dalle nostre parti si soleva definirla con il termine di “masca”, una parola molto antica che pare significhi "anima di morto". Spesso la masca oltre a essere cattiva era anche dispettosa e con qualità sovrumane. In molte località del Piemonte si riteneva che il sacerdote, mentre celebrava la messa, riuscisse a individuare le masche e chiunque lo avesse toccato nel momento in cui lui aveva intravisto la masca, avrebbe acquistato i suoi stessi poteri. Un altro modo per trovare una strega in chiesa, era quello di mettere una croce nella pila dell'acqua santa, così la masca non avrebbe potuto fuggire.
Nelle valli del Cuneese, vi era la convinzione che la masca, prima di morire, trovata la persona adatta a cui affidare la sua eredità di stregoneria, pronunciasse queste parole: "… ti lascio il mestolo". Questa donna appariva come un'incantatrice, pronta a trasformarsi in un essere, a volte anche in animale, pronto a qualsiasi malefico sortilegio. Si pensava che le masche sciogliessero le fatture fatte dai maghi e trasformassero la magia benigna in magia maligna.
Già nel Quattrocento si processavano le donne per stregoneria, venivano bruciate vive, con l'accusa di aver operato incantesimi e diavolerie, sottoposte a torture o esorcizzate. L'esorcismo consisteva in un rituale per allontanare le supposte presenze malefiche. La tortura costringeva le donne ad attribuirsi colpe che non avevano dopodiché spesso erano condannate al rogo. Le erbe anti-streghe e anti-malocchio che si usavano erano la ruta, l'ortica, la verbena, l'artemisia, la malva e le foglie di ulivo benedetto; in alcuni luoghi si guariva il malocchio mettendo tre gocce d'olio in una scodella piena d'acqua appoggiata sopra la testa del malato. Per intensificare la cura, bisognava mangiare il cuore delle rondini perché ritenuto un calmante.
La linea di demarcazione tra concezione magica e concezione religiosa è molto sottile. Il sacro e il profano si mescolano sempre nella vita quotidiana. Nelle Langhe era radicata la credenza che certe persone influissero negativamente su bambini e animali. Per togliere la maledizione si ricorreva a una fattucchiera, si chiedeva una benedizione speciale al sacerdote o si ci rivolgeva ai poteri guaritori di erboristi o settimini, a volte accompagnati dalla fama di stregoni. Di settimini ed erboristi, ce n'erano in tanti paesi e i postulanti giungevano a consultarli anche da molto lontano. I guaritori prescrivevano soprattutto decotti che in alcuni casi si rivelavano efficaci cure che non sempre avevano una loro spiegazione logica.
Nel tempo eventi arcani e leggende fiorirono anche in Ceva, città posta alla confluenza di due fiumi, che dovrebbe essere quindi carica di energia magica, come ad esempio Torino. Si richiede pertanto uno studio approfondito in tal senso comprendente anche un’analisi del rapporto tra i cebani e il mondo del mistero e una ricerca di testimonianze e avvenimenti del passato (masche a Ceva, chi curava il fuoco di sant’Antonio, che segnava i vermi, chi toglieva il malocchio, chi trattava le distorsioni, “mediconi” e guaritori vari). Questa ricerca non deve tralasciare il valore antropologico di queste credenze nella società cebana.
Altro campo di indagine sono luoghi od elementi artistici ritenuti un po’ “speciali” come la fontana della Gottrosa, oggi all’interno della chiesa della Consolata, la torre di Memo, antri, cunicoli e gallerie disseminati nel sottosuolo del Centro storico, le aree intorno ai ruderi della Fortezza o nelle adiacenze dei Castelli, il Teatro Marenco, il simulacro dell’Addolorata, la statua di san Bernardino.
La città ha anche altri aspetti legati ad un alone di leggenda, come le vicende della bella Romanisia, le efferate gesta del marchese Febo, la prigionia della Marchesa di Spigno o la figura della Buona Fata del Forte di Ceva tratta dal romanzo di Giovanni Battista Salvetti. Si potrebbe prevedere una rivisitazione del ruolo della Buona Fata ed un avvicinamento delle classi primarie alla sua storia attraverso quello che potrebbe essere un adattamento teatrale di quest’opera di inizio Novecento.