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La figura di questo illustre personaggio, si lega alla città di Ceva per soli due anni di permanenza, dal 1794 al 1796.
Avviato alla carriera militare divenne generale presso il Regio esercito del Piemonte.
Arrivato al grado di Generale Re Carlo Emanuele III lo nomina Governatore Generale di Fossano.
Il 24 marzo 1794, sebbene ormai anziano, venne nominato da Re Vittorio Amedeo III nuovo Governatore Generale di Ceva per opporsi all’offensiva delle truppe francesi.
La più importante porta di comunicazione e via d'accesso per lo Stato Sabaudo era la valle del Tanaro e quindi era di cruciale importanza per gli esiti della guerra difenderli.
Tornaforte si recò a Ceva e nominò il figlio Vincenzo Bruno di Tornaforte suo aiutante di campo.
La sua strenua difesa risultò efficace.
Dal libro di Barberis/Manfredi: «Le truppe di campagna avevano abbandonato Ceva ma il forte fu mantenuto in mani piemontesi sotto il comando del brigadiere d’armata conte Filippo Francesco Bruno di Tornaforte, vecchio ufficiale la cui età avanzata non aveva intaccato il carattere bellicoso.
S’era aggiunto alla guarnigione il conte di Salmour con 248 uomini del reggimento di Mondovì, 226 uomini del battaglione di Stettler, qualche distaccamento di altri corpi e qualche pezzo di artiglieria.
Come si apprende da una lettera del 18 aprile inviata a Bonaparte da Sérurier questi, un’ora e mezza prima dell’alba dello stesso giorno, aveva intimato la resa al governatore.
La risposta di Tornaforte fu un fiero rifiuto ma fu preso impegno di non sparare sulle truppe francesi che si trovavano nella città. Questo impegno testimonia la sua correttezza militare anche se la decisione avrebbe favorito le operazioni dei francesi a cui ben poco importava la vita della popolazione, purché i loro piani non venissero intralciati. Era infatti evidente che una resistenza protratta per parecchi giorni avrebbe rallentato la marcia ed immobilizzato l’armata.
Entrato in città alla testa delle truppe, anch’egli fece subito partire uno dei suoi aiutanti di campo verso il forte per parlamentare con il governatore della cittadella e chiederne la resa ma ricevette lo stesso netto rifiuto.
Schierò allora alcune unità sui bric Bajone e Faja e, pensando di intimidire la guarnigione, fece schierare sul primo due cannoni da quattro libbre e due obici, con i quali infrangendo la tregua aprì il fuoco sul forte. I colpi degli obici non riuscirono a raggiungere il muraglione di cinta mentre i cannoni mandarono le loro palle a colpire le mura sotto il camminamento di ronda. Immediata fu la risposta dell’artiglieria da fortezza piemontese di maggior calibro che ad un ordine del capitano Barralis aprì il fuoco e costrinse al silenzio l’artiglieria avversaria. Anche una batteria di sei cannoni schierata in fretta per battere il forte fu a sua volta colpita con tale precisione che i pezzi furono distrutti ancor prima che potessero sparare un sol colpo. Caddero ben sedici artiglieri francesi con il loro capitano e solamente tre sopravvissero.
Terminò in questo modo la giornata del 18 aprile a Ceva.
Bonaparte arrivò a Ceva mentre stavano accadendo questi fatti e memore dell’esperienza fatta a Cosseria riconobbe l’inutilità ed il pericolo di un attacco al forte perché non erano ancora a disposizione idonei equipaggiamenti d’assedio.
Sapeva che il generale Rusca era di origine piemontese e che aveva amicizie in città e, pensando ad un’azione politica piuttosto che militare, gli consentì di patteggiarne la resa anche se gli diede l’incarico di un attacco al forte. Gli permise altresì di annunciare che la contribuzione di guerra imposta alla città era ridotta di un terzo e Rusca ebbe tutto il beneficio d’immagine di questa decisione. Anche nei giorni successivi le richieste di resa si susseguirono ma inutilmente.
Dopo lo scontro di San Michele, che avverrà il 20 aprile all’una del mattino, Bonaparte darà ordine ad Augereau di mandare 1.200 uomini a sostituire quelli di Dommartin nell’assedio al forte aggiungendo: ... E’ necessario, sotto tutti i punti di vista, forzare il forte oggi stesso.
Ancora il giorno dopo da Mondovì manderà una nuova richiesta di resa con la minaccia di far passare l’intera guarnigione a fil di spada. Sarà anch’essa rigettata e la fortezza di Ceva si arrenderà solamente il 29 aprile, in forza delle clausole dell’armistizio di Cherasco e su ordine reale.
Il 29 aprile la cittadella aprirà quindi le porte non cedendo al nemico ma purtroppo agli ordini del proprio re e il conte Bruno di Tornaforte uscirà dalla fortezza con tutti gli onori militari, a tamburo battente e bandiere spiegate rientrando in Piemonte con le sue armi, fedele al suo sovrano che purtroppo si umiliava di fronte ad un giovane generale, fino ad allora praticamente sconosciuto “La mia artiglieria da assedio è giunta. Ogni resistenza che potrete fare sarebbe contraria alle leggi della guerra, e causerebbe un inutile spargimento di sangue. La vostra fortezza non è in grado di opporre alcuna resistenza. Se entro 24 ore non vi sarete arresi, io non accetterò nessuna resa successiva, e farò passare a filo di spada la vostra guarnigione”.
Il generale Francesco Bruno di Tornaforte con sprezzo mandò un dispaccio al messo di Napoleone con una secca risposta: “Io difenderò la fortezza al prezzo della mia vita, fino all'ultimo, per l'onore del re che me l'ha affidata”. »
Il governatore Bruno di Tornaforte ricevuto l'ordine dal Re di lasciare il Forte di Ceva, temendo saccheggi e rovine, decise di far spostare la statua dell’Addolorata al Duomo affinché fosse messa in sicurezza.