Cronologia della Storia di Ceva
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Vista del Forte di Ceva dalle alture verso Torresina.
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La zona di Ceva fu abitata nell'antichità da vari popoli e tribù: Liguri, Bagienni, Ingauni, Stazielli,
Galli Cispadani ecc.. L'assoggettamento ai Romani, avvenne sul principio del II secolo a. C. e di ciò si
hanno notizie da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (libro XI cap. 97) che parla del formaggio locale
(caseo ... Cebanum ... ovium maxime lactis ...) e da Columella che cita una particolare razza bovina
denominata Ceva (... regionis incolae Cevas appellant ...) nel De re rustica (libro VI cap. 24).
Ceva probabilmente non fu mai un Municipio Romano poiché gli abitanti di questi posti erano annoverati
nella tribù Publilia, sotto la giurisdizione di Albenga (Albingaunum). Dell'epoca romana di Ceva è
rimasto soltanto il nome, in quanto le invasioni dei barbari e poi quelle dei saraceni hanno distrutto questa
zona ed ogni genere di vestigia e documenti scritti.
Nell'XI secolo alcune carte degli Arduinici ascrivevano Ceva nella loro marca. Nel medioevo fu la sede di un marchesato
aleramico fondato da Anselmo II, figlio di Bonifacio del Vasto. Inizialmente i Ceva furono feudatari di oltre quaranta
borghi, molti dei quali con castello. Il marchesato ebbe i momenti più floridi dal XII al XIV secolo, periodo in
cui Giorgio II detto il Nano, dopo aver conquistato Mondovì per il Vescovo d'Asti, dovette cedergli il
marchesato stesso per poi esserne reinvestito. Ceva passò in seguito ai Visconti nel 1351 e agli Orléans
nel 1387. Dal 1422 fu assoggettata al dominio di Milano, a quello della Francia e poi della Spagna, finché nel
1559 i Savoia ne entrarono in possesso. I marchesi Ceva vennero destituiti e fu insignito del marchesato Giulio Cesare
Pallavicino.
Ceva per molto tempo fu difesa da una Fortezza, baluardo militare dello Stato Sabaudo, in posizione strategica
sulla Rocca.
Durante la prima campagna napoleonica d'Italia, il generale Francesco Bruno di Tornaforte, governatore del Forte,
resistette alle milizie di Bonaparte e si arrese solo dopo l'armistizio di Cherasco, per effetto del quale anche
Ceva passava ai Francesi. Questi furono cacciati da un'insurrezione popolare nel maggio del 1799. Napoleone,
nel 1800, ordinò di distruggere il Forte per l'affronto subito.
Alla fine dell'Ottocento il miglioramento del sistema stradale e la costruzione della rete ferroviaria favorirono
lo sviluppo industriale, in particolar modo nel settore tessile (Cotonificio, filande e filatoi). Purtroppo la Grande
Guerra portò ad una recessione del paese e molti cebani perirono al fronte. Durante la seconda guerra mondiale
Ceva fu occupata dai tedeschi e bombardata dagli alleati. Anche questo conflitto chiese molti sacrifici alla gente del
posto. Molti perirono o furono dispersi nella campagna di Russia. La Città seppe risollevarsi in fretta, con
un'accentuata espansione urbanistica al di fuori della zona un tempo delimitata dalla cinta muraria. Divenne un
polo artigianale, commerciale e di servizi di rilievo, incrementando la sua importanza come nodo del traffico viario di
collegamento con la Liguria. Nei secoli, a causa della sua posizione geografica, fu più volte oggetto di eventi
alluvionali. Nella memoria dei cittadini è ancora ben impressa l'alluvione del 1994 che arrecò
molti danni.
Ceva, nonostante i periodi di difficoltà, le distruzioni ad opera dell'uomo o della natura e i
periodi di crisi economica che spingono i giovani a cercare lavoro fuori dai suoi confini, continua comunque
imperterrita ad andare avanti, accettando le sfide del XXI secolo.
Cronologia del XVIII secolo
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Nel 1706, il Forte e la città di Ceva si trovarono coinvolti nei fatti d’arme relativi alla Guerra di Successione Spagnola,
durante la quale il duca di Savoia Vittorio Amedeo II era schierato con gli Asburgo e buona parte degli altri stati europei
contro l’alleanza franco-spagnola. Nell’ambito degli eventi collegati al famoso assedio di Torino, diverse furono le
azioni belliche che si svolsero nel cebano e numerosi uomini di questi territori furono arruolati nelle milizie sabaude.
Un assedio di alcuni mesi fu portato al Forte di Ceva da un’armata di 5.000 spagnoli, comandata dal conte di Sartirana.
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Gli avvenimenti guerreschi nella zona di Ceva, durante i quali al comando delle truppe dei Savoia ivi dislocate si distinse
la figura di Carlo Francesco delle Lanze conte di Sales, si protrassero fino al mese di settembre quando i piemontesi,
sotto la guida del principe Eugenio, del duca Vittorio Amedeo II e grazie all’eroico sacrificio di Pietro Micca,
posero fine all’assedio di Torino sbaragliando l’esercito francese e costringendolo ad una precipitosa ritirata.
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Nel 1712, nel sobborgo di Ceva allora chiamato di Santa Croce, venne portata a termine la riedificazione della chiesa dei Cappuccini,
iniziata nel 1709, dopo aver demolito, alla fine del secolo precedente, gran parte della primitiva chiesa, eretta tra il 1577 ed il
1582, ormai fatiscente e minacciante rovina.
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Nel 1719, con testamento rogato dal notaio G.B. Melissano di Saliceto, il sacerdote Giovanni Agostino Borgognone di Ceva donò
il suo patrimonio al Municipio, con l’obbligo di fondare un Collegio in cui si provvedesse all’insegnamento della grammatica,
dell’umanità e della retorica. Successivamente, nel 1731, Carlo Emanuele III di Savoia dispose l’
assegnazione al Municipio di un sussidio annuo di L. 1.050 affinché si potesse integrare il lascito Borgognone
ed istituire in aggiunta le classi di filosofia. Il contributo delle regie finanze fu mantenuto fino al 1762.
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Il 20 maggio 1720, a seguito del trattato dell'Aia con il quale la Sardegna veniva assegnata ai Savoia, Filippo
Guglielmo Pallavicino dei marchesi delle Frabose e di Ceva, chiamato anche barone di Saint Remy, venne nominato,
dal re Vittorio Amedeo II, vicerè della Sardegna. Mantenne questo incarico per due periodi,
dal 1720 al 1723 e dal 1726 al 1727.
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Nel 1724 i frati cappuccini realizzarono un’importante opera per l’irrigazione dei campi, orti e
giardini attigui al loro convento costruendo un canale lungo più di venti trabucchi (circa 62 metri), sostenuto da
un complesso di arcate, che attingeva l’acqua dalla riva della località detta Ostero, alla sinistra del
torrente Cevetta.
- Nel 1731 Anna Teresa Carlotta Canalis di Cumiana, contessa di San Sebastiano, marchesa di Spigno, moglie
morganatica di Vittorio Amedeo II, venne imprigionata per alcuni mesi nel Forte di Ceva per ordine del figlio di questi,
il regnante Carlo Emanuele III, in favore del quale il padre aveva abdicato l’anno precedente. A
pparentemente la ragione fu quella di aver istigato l’ex sovrano, già ammalato, ad annullare
l’atto di abdicazione per ritornare sul trono sabaudo.
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Il 18 Novembre 1737 la chiesa dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina venne consacrata.
Edificata sulla piazza principale della città, su progetto iniziale del 1680 del celebre architetto modenese
Guarino Guarini, dopo vari decenni di interruzione l’opera fu nuovamente progettata e portata a termine
dall’architetto monregalese Francesco Gallo.
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Nel 1738 venne trasferito nelle prigioni del Forte dalle carceri di Torino Pietro Giannone, storico, filosofo e
giurista di origini pugliesi, importante rappresentante dell’Illuminismo italiano, condannato per le sue
opere letterarie di marcata tendenza anticlericale.
Vi rimase sino al 1744 ed in questo periodo scrisse alcuni dei suoi più celebri componimenti.
Di nuovo tradotto nelle prigioni del mastio della Cittadella di Torino vi morì nel marzo del 1748.
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Dal 1739 si registrò una sorta di evoluzione in termini di assistenza sanitaria. Con gli interessi maturati
dai capitali della Confreria dello Spirito Santo fu possibile stipendiare un medico ed un chirurgo che curassero
gli ammalati del quartiere del borgo Sottano.
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Nel 1744 una straordinaria piena del torrente Cevetta recò gravi danni. Oltre ad abbattere uno
dei pilastri e due arcate dell’acquedotto dei frati Cappuccini, danneggiò il ponte San Giovanni
ed alcune case del borgo della Luna.
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Nel 1744-1745 altre vicende belliche interessarono il Forte, la Città e tutta l’Alta Val Tanaro
per effetto della Campagna militare Gallo-Ispana condotta nel contesto della più ampia Guerra di
Successione Austriaca (1740-1748) che coinvolse quasi tutte le potenze europee. Le truppe d’invasione
erano comandate dall’infante Filippo di Spagna e dal maresciallo francese Jaen Baptiste de Maillebois e
percorrevano la costiera occidentale per inoltrarsi nell’Italia settentrionale. Secondo alcuni storici
una parte di queste milizie, attraverso l’Alta Val Tanaro, giunse fino a Ceva, assediando la fortezza,
secondo altri fu affrontata e sconfitta in campo aperto dal corpo piemontese del barone
Wilhelm von Leutrum (in dialetto nostrano noto come Baron Litron).
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Nel 1763, mentre era parroco Michele Marazzani, furono portati a compimento i lavori di ampliamento del Duomo,
iniziati tre anni prima su progetto dell’ingegner don Giuseppe Trona di Mondovì che aveva previsto
l’aggiunta di una cappella per lato in senso longitudinale ed il completo rifacimento della facciata.
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Nel 1773, con patente regia, Carlo Emanuele III, riconosce a Ceva il titolo di Città con tutti gli onori,
diritti e prerogative che ne convengono. Il riconoscimento, già attribuito da altri sovrani sabaudi nel
secolo precedente, viene tuttavia riaffermato dal re in carica ed il relativo testo termina con le seguenti parole:
“… avuto il parere del nostro Consiglio creiamo, costituiamo e stabiliamo il comune, luogo e
territorio di Ceva in Città, volendo che d’or in avvenire debba sempre essere trattato,
reputato e denominato col titolo di Città...” (Firmato Carlo Emanuele III, re di Piemonte e Sardegna).
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Il 21 Marzo 1775, Vittorio Amedeo III stabilì, con suo decreto, che si costruisse una strada che,
partendo da Narzole ed attraversato il Tanaro salisse a Murazzano e si congiungesse a Montezemolo con la strada n
azionale che dal Piemonte arrivava a Savona attraverso Ceva. La strada venne chiamata
Strada delle Alte Langhe o della Riviera.
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Il 17 Dicembre 1779, a seguito del testamento del cavalier Francesco Amedeo Derossi e coi beni che legò
suo fratello, monsignor Giuseppe Tommaso vescovo di Alessandria, fu fondato l’Orfanotrofio che divenne, nel
1786, Ospizio di Carità e chiamato Istituto Derossi a memoria dei due fondatori. Al principio ebbe la sua
sede in una casa del borgo Sottano, poi si trasferì nel dismesso convento dei Cappuccini e nel 1816
trovò la sua definitiva collocazione nella casa dell’avvocato Greborio nella contrada Valgelata.
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Il 1° febbraio 1786, stante la perdurante difficoltà che presentava la promiscua amministrazione
dell’Oratorio dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina e dell’annesso
Ospedale, con rogito Bottalla, se ne stabilì la separazione creando due amministrazioni indipendenti.
L’Ospedale degli Infermi mantenne il titolo di Santa Maria e Santa Caterina, a ricordo delle due
confraternite che insieme lo crearono e gestirono per tanti anni.
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Il 24 luglio dello stesso anno, alla presenza di monsignor Giuseppe Maria Langosco di Stroppiana vescovo
di Alba e di monsignor Giuseppe Anton Maria Corte vescovo di Mondovì, venne celebrata la solenne festa
per la traslazione del sacro corpo di San Clemente martire, posto in un’urna di legno dorato costruita
a Roma e posto all’interno della chiesa dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina.
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Nel 1789, su progetto dell’ingegnere cebano Giuseppe Davico fu costruito l’abside del Duomo.
Le spese furono sostenute quasi totalmente dall’abate Alessandro Rovelli che già era stato
munifico donatore dell’ancona del Conca rappresentante la Sacra Famiglia e finanziatore della
realizzazione dell’altare maggiore.
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Il canonico Celestino Ceva di Lesegno, insigne benefattore della collegiata, dove servi in qualità
di penitenziere per 55 anni, fece restaurare nel 1793 una parte della chiesa di Sant’Andrea,
il più antico edificio religioso cebano di cui si ha memoria che era unito all’omonima cascina.
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La Rivoluzione Francese e gli eventi susseguenti rimisero in armi l’Europa. Vittorio Amedeo III,
rifiutando la condizione di neutralità richiestagli dai francesi si schierò dalla parte
dell’Austria. Prospettandosi quindi nuovamente un‘invasione delle armate di oltre Alpe, in
aggiunta alla guarnigione già presente nel Forte, furono molto numerose le soldatesche che si
stanziarono a Ceva, appartenenti sia all’esercito piemontese che agli alleati. Queste furono
portatrici di gravi epidemie tanto che nel 1794 e nel 1795 il tasso di mortalità, anche tra i
civili, fu quasi triplicato rispetto agli anni precedenti. Questa fu forse la ragione per cui al borgo
di Santa Croce, detto della Luna, in quei tempi non ancora molto urbanizzato, la nuova casa Beltrami
(che dopo diversi ripristini sarebbe diventata un secolo più tardi la sede del Banco di Credito Azzoaglio),
servì ad uso di ospedale militare. Dal 1794 al 1796 si poterono ricoverare in essa fino a 110 malati per volta,
appartenenti alle milizie austriache e sarde. In seguito, fu utilizzata come caserma dai soldati francesi
durante il loro periodo di occupazione del territorio piemontese dopo l’invasione del 1796.
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L’invasione del regno di Sardegna da parte delle truppe rivoluzionarie ebbe inizio nel settembre del 1792
con i primi scontri al di là delle Alpi, nei territori del Nizzardo e della Savoia e proseguì,
con alterne vicende, anche l’anno successivo. Nel 1794 cambiarono i programmi del Direttorio, questi
prevedevano la penetrazione in Piemonte attraverso l’Alta Val Tanaro con il conseguente assedio del
Forte di Ceva, che era considerato il punto d’appoggio fondamentale attorno al quale concentrare le
strategie difensive anche dal comandante dell’esercito piemontese generale Michele Colli-Marchini.
Intanto, con l’ispirazione ai movimenti giacobini e girondini francesi, si erano sviluppate anche in
Piemonte, tra il popolo oppresso dalle gravose tasse imposte dai Savoia, concezioni di intransigente repubblicanesimo.
Questo non facilitò la predisposizione dei piani e delle azioni di difesa ad un esercito sfiduciato,
logorato da tre anni di guerra e non supportato nei modi più opportuni dagli alleati austriaci
sotto la guida del generale Jean Pierre de Beaulieu.
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Nella primavera del 1794, le truppe francesi comandate dal generale Massena, dopo aver occupato il forte di
Ormea, scesero in Val Tanaro spingendosi verso Ceva senza potersi tuttavia avvicinare. Non mancarono
però scorrerie e rappresaglie per tutto l’anno nella valle ed il rafforzamento dei
posizionamenti sulle alture vicine.
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Alla fine del 1795, dopo varie operazioni di riassetto e spostamento di truppe, a seguito della
vittoriosa battaglia di Loano i francesi giunsero nei pressi di Ceva risalendo la Valle Bormida,
ma non era ancora nelle loro mire dare l’assalto al Forte e, fermati in Val Tanaro a
Nucetto e sulle colline di Perlo, furono costretti a ritirarsi nei campi invernali di Garessio ed Ormea.
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Nei primi giorni di Aprile del 1796 la ripresa dell’offensiva francese si intuì imminente.
L’esercito transalpino poteva disporre di circa 65.000 uomini avendo contro non più di 25.000
piemontesi, poco più della metà dell’intero esercito sabaudo, essendo gli altri schierati su
altre postazioni dell’arco alpino o nelle retrovie a protezione della capitale. Le truppe austriache
alleate erano composte da circa 40.000 effettivi, ma sul fronte degli incombenti scontri non se ne contavano
più della metà. Gli altri erano ancora acquartierati nei campi invernali della pianura Padana.
Il Direttorio aveva appena posto a capo dell’Armée il giovane generale Napoleone Bonaparte
in sostituzione del generale Schérer. Il piano di Napoleone era quello già progettato dai
francesi, ma non realizzato nella campagna del 1744-45, cioè di sfondare al centro per separare i
due eserciti e combatterli separatamente.
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Nella primavera del 1796, oltre l’incombere dell’invasione francese, si verificò
un’altra inondazione del Tanaro, che allagò tutta la pianura del Brolio, sradicando
e trascinando via alberi, devastando le coltivazioni e causando la perdita di una grande q
uantità di bestiame.
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Il Forte di Ceva, da un paio d’anni sotto il comando dell’anziano valoroso governatore
Francesco Bruno di Tornafort, costituiva l’argine principale attorno al quale concentrare tutte le
operazioni di difesa e a tal proposito si operarono massicci interventi. Infatti, con le direttive del
generale Eugen D’Argenteau, si costruì un eccezionale campo trincerato intorno alla fortezza
e lungo tutta la dorsale delle alture fin oltre la Pedaggera, andando a costituire un formidabile baluardo
contro qualsiasi tentativo di assalto da parte nemica.
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L’avanzata dei francesi fu rapida e cruenta e nel giro di appena cinque giorni, dall’11 al
15 di aprile, combattendo su più fronti e riportando vittorie negli scontri di Monte Negino,
Montenotte, San Giovanni di Murialdo, Cosseria, Dego, Millesimo, si era già realizzata la
prima parte del disegno di Napoleone, cioè la quasi separazione dei due eserciti avversari.
Il generale Colli nella notte tra il 14 e 15 aprile aveva abbandonato le alture di Montezemolo,
lasciando solo una piccola retroguardia e concentrando tutte le sue truppe nei campi trincerati
di Ceva e della Pedaggera.
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La Battaglia di Ceva e della Pedaggera si combatté il 16 aprile e fu un reale successo dei
piemontesi (reparti Brempt, De Portier, Colli, Ghilini, Vitale, Bellegarde, Pallavicino, Stettler, Andezeno)
che per tutta la giornata respinsero gli attacchi delle varie brigate francesi (Beyerand, Joubert,
Rusca, Fiorella) su tutta la linea di difesa costringendole a ritirarsi oltre il torrente Bovina.
Gli invasori passarono la notte sul sistema collinare che da Paroldo va verso Sale, pronti a
riprendere gli assalti il mattino successivo, rinforzati da altre truppe della divisione Sérurier,
che intanto era scesa dall’Alta Val Tanaro.
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Inaspettatamente però, nonostante il buon esito degli scontri del giorno precedente, nella
notte tra il 16 ed il 17 aprile, il generale Colli ordinò l’evacuazione del campo
trincerato facendo ritirare le sue truppe verso San Michele e andò ad occupare celermente
le posizioni difensive della Bicocca. Le ragioni furono dovute all’inquietudine che si era
impossessata del comandante dell’esercito piemontese, circondato da uno stuolo di pavidi
subalterni, scettico ormai sull’aiuto che gli potevano fornire gli austriaci, timoroso che
altri reparti, delle divisioni dei generali Massena e La Harpe, attardati dal combattimento di
Dego, potessero quanto prima arrivare aggirandolo sulla sinistra.
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Questa manovra consentì ai francesi di avanzare senza molti problemi ed attraversare il
torrente Corsaglia. Restava il Forte di Ceva che grazie al conte di Tornafort continuava a resistere.
A nulla erano valsi messaggi di intimazione alla resa inviatigli dal generale Fiorella e dal generale
Augerau tra il 17 ed il 18 aprile. Il Tornafort li aveva fieramente respinti impegnandosi però
a non sparare sulle truppe occupanti, poiché non avrebbe ritardato di molto l’avanzata
francese, ma avrebbe arrecato danni enormi alla città ed ai suoi abitanti.
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Il primo a giungere in città fu il generale Rusca, che la mattina del 17 aprile si era
attestato sull’altipiano di Soraglia, dietro le mura del Campanone, al riparo dai colpi
di cannone che gli arrivavano dalla fortezza. Il generale Rusca, originario di Briga Marittima,
prima di arruolarsi nell’esercito francese era un medico ed era già stato altre
volte per i suoi affari a Ceva, dove poteva contare diversi conoscenti. Questo favorì
le trattative che condusse con la municipalità per il vettovagliamento delle sue truppe e
l’esborso di 8000 franchi. In tal modo fu evitato il saccheggio della città ed i
francesi osservarono la rigida disciplina imposta dal loro comandante. Anch’egli tentò di
costringere il Forte alla resa, ma inutilmente quindi proseguì per San Michele.
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Napoleone Bonaparte arrivò a Ceva nella tarda mattinata del 20 aprile, mettendo per la
prima volta in atto un assetto di sfilamento trionfale del suo stato maggiore che avrebbe poi
sempre ripetuto in ogni città conquistata. Percorse tutta la via delle Volte sino al Duomo,
poi pranzò presso l’albergo di Domenico Francolino. Con il capo di stato maggiore generale
Berthier ed il commissario generale Saliceti convenne che era inutile e troppo dispendiosa un’azione
militare contro il Forte, stante che il grosso dell’esercito era già vittoriosamente passato
oltre e dopo la battaglia di san Michele era in procinto di attaccare Mondovì. Convocata la civica
amministrazione, ordinò all’attuario Sito che si provvedesse per la contribuzione di guerra
dovuta dalla città. Il Sito, rammentando i già corposi tributi a cui fu soggetta da parte
francese la comunità nei giorni precedenti, riuscì ad ottenere dal generale una
riduzione delle pretese.
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Mentre era ospite dell’avvocato Moretti, affacciatosi da un balcone, Napoleone scorse il
castello dei Pallavicino, vi si recò ed il marchese Cosimo Damiano lo accolse e vi
passò probabilmente la notte, proseguendo in seguito per Lesegno dove aveva stabilito il quartier generale.
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Dopo la ritirata dalla Pedaggera e le battaglie di San Michele e di Mondovì, l’esercito piemontese
era praticamente in disfatta ed ai francesi si era aperta la via del Piemonte. Il re fu costretto a chiedere
una tregua per scongiurare la devastazione delle principali città della parte meridionale della
regione e della stessa Torino. L’armistizio fu siglato a Cherasco la mattina del 28 aprile.
Di conseguenza il giorno dopo giunse il dispaccio di Napoleone al conte di Tornafort che recava l’ordine
di Vittorio Amedeo III di consegnare il Forte ai francesi nella persona del generale Miollis, c
he fu pure destinato a comandare la città, sistemandosi in casa Pallavicino. La guarnigione ebbe
la facoltà di abbandonare il presidio a bandiere spiegate,
con l’onore delle armi, dirigendosi verso Bra, come era stato prescritto.
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Il conte Vincenzo Bruno di Tornafort, aiutante di campo del Governatore suo padre,
fece trasportare nel Duomo la preziosa statua dell’Addolorata, dalla cappella del Forte,
per preservarla da eventuali oltraggi che avrebbe potuto subire dai francesi che si accingevano ad
insediarsi nella fortezza.
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Il 20 Settembre 1796 venne istituita la Compagnia dell’Addolorata a
perenne venerazione del simulacro.
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Nel 1796, con l’amministrazione da parte della Francia dei territori occupati, viene ad estinguersi
quella forma di suddivisione giurisdizionale del marchesato di Ceva che fin dal 1457
aveva portato alla costituzione di 12 Capitanati o Donzeni.
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I due anni che seguirono furono di estrema desolazione per la città occupata.
Si susseguivano da parte dei francesi imposizioni e saccheggi, anche nelle c
ampagne intorno e non si esitava a compiere ruberie ed atti sacrileghi anche in cappelle e chiese.
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Con Regie Patenti del 13 Marzo 1798 venne decretata la soppressione del convento degli
Agostiniani e messe in vendita le cascine di sua proprietà.
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1799, nel mese di maggio, anche prestando credito alle voci che circolavano circa il sopraggiungere di
una grande armata di austro-russi per cacciare i francesi dalle terre del Piemonte, si organizzò
un corpo di ardimentosi volontari provenienti dalle terre del cebano che era comandato dal capitano
Francolino di Castellino, dal chirurgo Cerrina di Murazzano e dal signor Galliano di Sale. Costoro
costrinsero alla resa il comandante francese Maris impossessandosi del Forte, un po’ con le
armi e un po’ con l’astuzia. Alcuni giorni dopo, di concerto con i rivoltosi, venne
inviata dal comando russo di Alessandria una guarnigione militare a presidio del Forte, della
quale facevano parte anche ex artiglieri dell’esercito piemontese. Furono intraprese opere
di manutenzione e di rafforzamento delle difese, anche con l’aiuto di molti cittadini di
Ceva per prepararsi ad una controffensiva francese. Questa non tardò ad arrivare, al c
omando del generale Grouchi, che stabilì le sue artiglierie in cima al borgo della Torretta,
vicino alla cascina di sant’Andrea. Dopo un vicendevole scambio di cannoneggiamenti ed
intimazione di resa da parte dei francesi, sistematicamente respinte dagli occupanti la fortezza,
quelli, ritenuto vano ogni tentativo, si allontanarono dalla città. Altrettanto inutile
fu il minaccioso proclama fatto pervenire poco dopo dal generale Moreau nuovo comandante in
capo dell’armata francese in Italia.
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A inizio luglio, una legione di prigionieri francesi al cui seguito vi erano anche donne e bambini
giunse a Ceva, proveniente da Ferrara e diretta a Savona per congiungersi con l’armata
repubblicana, munita di un ricco bagaglio che nella notte fu depositato nella chiesa di San Giovanni.
La notizia si sparse rapidamente, il giorno successivo i francesi ripartirono da Ceva, ma un’orda
di briganti lì assalì e depredò, trucidandone parecchi, nella valletta del Cevetta
poco fuori dell’abitato di Priero all’inizio della salita verso Montezemolo. Nello stesso
giorno buona parte del bottino venne messo in vendita dagli aggressori in una sorta di mercato che
passò alla storia come un fatto esecrabile, tristemente noto come La Fiera di Priero.
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Negli ultimi mesi del 1799 più volte soldatesche francesi di passaggio tentarono di i
mpadronirsi di Ceva cercando di forzarne le porte, ma corpi di volontari composti quasi
esclusivamente da cittadini li respinsero coraggiosamente, procurando loro numerose perdite,
anche con l’aiuto dell’artiglieria del Forte dove erano insediati
gli austriaci del comandante Schmelzem.