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Nel medioevo, l’assistenza e la cura degli ammalati della città, dei pellegrini e dei viandanti in qualche modo bisognosi erano affidate alle cosiddette confrerie o confraternite. A Ceva ne furono attive diverse: dello Spirito Santo, di Santa Maria, di Santa Caterina, dei cavalieri Gerosolimitani, chiamati anche di Rodi e in seguito di Malta. Queste miravano tutte alle medesime finalità di sostegno assistenziale, che potevano svolgere grazie a donazioni e rendite derivanti dal possesso di beni immobili o da prodotti di fondi agricoli di loro proprietà.
Di una struttura che rispondesse alle caratteristiche di ospedale, cioè di luogo dove a spese della comunità si garantivano attività di ricovero in favore degli infermi, si ha memoria che fosse già funzionante all’inizio del Trecento. Infatti, risale al 1307 un legato a favore dell’ospedale di venti scudi romani disposto dai fratelli Antonio e Giorgio Gandolfi. Si faceva cenno della sua esistenza anche negli statuti della città del 1357.
La sua ubicazione era all’interno della città fortificata, dove sorgevano il castello marchionale e la chiesa parrocchiale di Santa Maria del Castello, ma ad oggi non è stata individuata la confraternita che ne curava la gestione (Umiliati di Santa Caterina, Disciplinanti o Battuti di Santa Maria). La congregazione laica dei Disciplinanti cominciò a diffondersi in queste zone solo agli inizi del Quattrocento e furono menzionati in un’aggiunta fatta agli statuti del 1419. Si può quindi affermare che, dalle prime decadi del XV secolo, fossero efficienti a Ceva due istituzioni i cui iscritti, oltre alle attività assistenziali e caritative nei loro molteplici aspetti, provvedevano alla cura dei malati degenti presso gli ospedali-lazzaretti annessi ai loro edifici oratoriali.
Stante che gli infermi che avevano la possibilità di assolvere alle spese si facevano accudire al proprio domicilio, la tipologia degli assistiti dei due ospedali era più che altro riferita alle persone indigenti o a forestieri di passaggio colpiti da morbi improvvisi. Si ha anzi ragione di credere che, siccome il numero dei confratelli Battuti era rapidamente diventato molto consistente, il loro ospedale fosse riservato esclusivamente al sostegno dei poveri e bisognosi aderenti alla congregazione medesima, mentre quello di Santa Caterina restava a disposizione di tutta la collettività.
Ragioni di spazio e precauzioni igieniche, conseguenti alle pestilenze che infestarono questi territori in quel periodo, costrinsero le due confraternite, prima quella di Santa Caterina e poi quella di Santa Maria, a trasferire i loro ospedali e edificare i due nuovi oratori poco fuori le mura di cinta della città, sulla sponda destra del torrente Cevetta, dirimpetto al convento dei Minori osservanti di san Francesco. Quest’ultimo era stato lì ricostruito da poco, essendo stata danneggiata dall’inondazione del Tanaro del 1331 la sua primitiva sede, che sorgeva a circa cinquecento metri dal borgo di Sant’Andrea, nella località oggi detta Nosalini.
Il 6 luglio 1584 una rovinosa alluvione del Cevetta, oltre agli ingenti danni che causò all’intera città, distrusse le chiese delle due confraternite e l’ospedale di santa Caterina, deteriorando anche le strutture del vicino convento francescano. Solo l’ospedale di Santa Maria fu preservato dal disastro. L’anno successivo il vescovo di Sarsina, monsignor Peruzzi, durante la sua visita apostolica, prese atto della volontà delle due associazioni di provvedere ai lavori per il celere ripristino dei due oratori. Lo stesso, però, invitò a sistemare convenientemente l’unico ospedale rimasto. Le confraternite provvidero in tempi brevi alla ricostruzione dei due edifici religiosi, senza stornare i fondi derivanti dalle loro rendite destinati alla beneficenza, all’accoglienza e all’assistenza degli ammalati, come loro prescritto dall’autorità vescovile. Di conseguenza l’ospedale di Santa Maria fu ampliato e riadattato, rendendolo più efficacemente rispondente ai fabbisogni sanitari della popolazione.
Nel 1678, il vescovo di Alba, monsignor Vittorio Nicolino Della Chiesa (1626 ca.-1691), durante la sua visita pastorale non poté fare a meno di annotare che i due oratori non erano sufficienti a contenere il crescente numero di affiliati alle due congreghe e caldeggiò la costruzione di una nuova e più capiente chiesa. Il prelato sollecitò le due confraternite a fondersi in una sola adottando, con spirito rinnovatore in coerenza con i tempi, nuovi regolamenti comunitari che prevedessero di convogliare in un unico insieme i beni posseduti e le rendite godute da entrambe le parti. Questo avrebbe consentito di offrire nuovo incremento alle opere benefiche ed assistenziali e un più concreto e funzionale servizio di sostegno ai poveri infermi. I confratelli delle due aggregazioni il 18 settembre di quell’anno firmarono l’atto di fusione e crearono l’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina e cercarono un sito dove poter costruire i nuovi edifici da destinare ad ospedale ed oratorio. Quest’area doveva essere sufficientemente ampia ed all’interno della cinta muraria, per preservarsi dai danni alluvionali. Venne individuata sul lato nord-est della piazza Maggiore, nel luogo occupato da alcune costruzioni fatiscenti che avrebbero potuto essere abbattute. Come accennato nel capitolo relativo alla chiesa di Santa Maria e Santa Caterina, si incaricò l’architetto Guarino Guarini di provvedere alla progettazione di entrambe le strutture. Tra il 1679 ed il 1680 questi provvide alla redazione e consegna dei progetti commissionatigli. L’entusiasmo che aveva in un primo tempo coinvolto i membri dell’Arciconfraternita si attenuò di fronte alla reale spesa che avrebbero dovuto affrontare per l’esecuzione di entrambe le opere, pur nella consapevolezza che sia il palazzo dell’ospedale che la chiesa avrebbero costituito dei veri gioielli di arte barocca, inseriti nel gotico trecentesco degli edifici della piazza. Dopo alcune titubanze venne stabilito di dare inizio alla costruzione dell’ospedale, rimandando a tempi più propizi quella dell’edificio religioso.
Verso la fine del 1682 l’ospedale fu compiuto, ma al momento di usufruirne per assicurare una nuova e dignitosa ricettività sanitaria per la comunità, venne deciso di cambiare la destinazione di utilizzo dell’immobile, affittandolo nella quasi totalità all'amministrazione pubblica, che vi collocò vari uffici ed archivi, la sala delle riunioni del consiglio comunale, i magazzini ecc. Non si sono mai rinvenuti documenti che chiarissero le motivazioni di questo mutamento. Si può ipotizzare che, alla luce dell’impegno assunto al momento della creazione dell’arciconfraternita, si cercasse, con la riscossione degli affitti, di reperire i fondi necessari alla edificazione della nuova chiesa. L’ospedale avrebbe potuto restare dov’era, con l’eventuale possibilità di essere ulteriormente ingrandito in futuro, in un luogo più aperto e salubre, meno esposto ai rischi di contagi nei ricorrenti eventi di gravi epidemie. Ragioni queste che già in passato avevano portato alla scelta della sua collocazione periferica. La struttura ospedaliera non fu pertanto trasferita e rimase là dove era stata ripristinata dopo l’alluvione del Cevetta del 1584.
Alla sua conduzione provvedeva un ospitaliere stipendiato, nominato ogni anno dalla consulta dell’Arciconfraternita, unitamente a due confratelli che servivano da suoi coadiutori. Per le prestazioni ai poveri ricoverati erano altresì annualmente incaricati un medico ed un chirurgo, che ricevevano una retribuzione a parte per le cure rese ai pazienti solventi.
Intorno alla metà del XVIII secolo cominciò ad affermarsi nella gente l’aspirazione a cambiamenti e rinnovamenti nell’ambito delle attività assistenziali. Inoltre, iniziò a dilagare un generale atteggiamento critico nei confronti delle frequenti decisioni di dirottare la maggior parte delle sostanze dell’Arciconfraternita verso le questioni e le spese riguardanti la chiesa, anziché destinarle all’incremento e al miglior funzionamento dell’ospedale e di altre opere di beneficenza, benché la maggior parte dei lasciti e delle donazioni pervenissero proprio per questi scopi. Tutto ciò, dopo una serie di vicissitudini che videro l’intervento delle autorità cittadine e del vescovo di Alba, nel mese di ottobre del 1786 portò all’approvazione dell’atto di separazione tra Ospedale e Oratorio, con la costituzione di due amministrazioni autonome. Il marchese Cosma Damiano Pallavicino venne nominato primo presidente dell’Ospedale, costituito sotto il titolo di Santa Maria e Santa Caterina.
Nel 1806, a seguito delle disposizioni napoleoniche contro gli ordini religiosi, il convento di San Francesco venne soppresso e nei suoi spazi molto ampi trovarono collocazione le scuole governative. Nel 1841, con atto notarile, si formalizzò la permuta di questo edificio con quello contiguo occupato dall’ospedale che da allora e fino al 1990 vi mantenne la sua sede. In questa occasione non poche furono le controversie tra l’amministrazione dell’ente e il demanio, che pretendeva cifre giudicate esose per i diritti di insinuazione.
Nel 1849 un decreto emanato dal re Vittorio Emanuele II ne approvò lo statuto organico, regolamentando altresì la composizione del consiglio di amministrazione, il cui presidente doveva essere di nomina regia.
Il 1862 fu l’anno della venuta a Ceva delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli. Le Suore Vincenziane prestarono la loro preziosa opera in ospedale, con un’interruzione dal 1875 al 1881, fino al 1995 ed ancor oggi mantengono una piccola comunità in Città dedita all’assistenza infermieristica, caritativa e di sostegno sia religioso che sociale.
Nel biennio 1870-1871 furono compiute rilevanti opere di ampliamento e ristrutturazione, che cambiarono destinazione d’uso anche alla chiesa del convento francescano, la cui vasta superficie fu utilizzata per camere di degenza e servizi accessori. Si mantenne integro solamente il portale d’ingresso con la sovrastante lunetta affrescata, pregevole opera dell’inizio Quattrocento di Rufino d’Alessandria che raffigura una Madonna col Bambino tra il beato Pietro da Lussemburgo e sant’Antonio Abate. Questa venne restaurata nel 2001-2002 da Luisa Torrero, sotto la direzione del professor Lorenzo Mamino.
Le tracce del vecchio convento francescano sono ancora visibili nella struttura a “L”, anche se questa dal XIV secolo ha subito numerosi rimaneggiamenti ed ora si presenta con un aspetto ottocentesco. L’edificio ha due piani sopra terra e degli spazi sotterranei da molto tempo inutilizzati e inaccessibili. Le facciate sono scandite da sequenze regolari di finestre.
Una legge del 1896 confermò l’erezione del nosocomio in Ente Autonomo e il Regio Decreto n. 1631 del 1938 lo riconobbe come ospedale di terza categoria, dotato di reparti per il ricovero di pazienti che necessitavano di cure mediche e chirurgiche di base, fornito di sala operatoria, sala per partorienti, ambulatori e servizi relativi ad altre specialità sanitarie.
Fino alla metà degli anni Sessanta in alcuni locali al piano terreno, al fondo dell’ala est erano ubicate le carceri, sotto forma di “casa mandamentale”, mentre una parte dell’ala ovest era utilizzata come ricovero per anziani, dismesso negli anni Settanta.
A partire dal 1965 si diede inizio l’ammodernamento e l’ingrandimento delle strutture ospedaliere.
In principio era stato previsto un notevole ampliamento, con l’innalzamento degli edifici esistenti e la costruzione di nuovi padiglioni. Intanto con la legge 132/1968 era stato riformato il sistema degli ospedali, che da enti di assistenza e beneficenza vennero trasformati in enti pubblici (enti ospedalieri) determinando nuove organizzazioni degli stessi. Per effetto di ciò, quello di Ceva venne classificato “Ospedale generale di zona”.
In funzione dei nuovi parametri indicati dalla riforma e a causa dell’esigua consistenza delle aree accessorie, da parte dell’amministrazione venne accantonata l’idea dell’ampliamento, optando per una nuova costruzione in un sito periferico della città. Esaminate varie ipotesi venne scelta la zona di San Bernardino, all’inizio degli anni Settanta del XX secolo. L’iter burocratico, progettuale ed edificatorio fu lungo e travagliato. Tra l’altro si dovette anche modificare, per questioni legate ai finanziamenti, la denominazione dell’ente passando da “Ospedale di Santa Maria e Santa Caterina” a “Ospedale dei Poveri Infermi”, in quanto così stava scritto nel citato regolamento di Vittorio Emanuele II.
Nel 1975, con l’amministrazione dell’ente presieduta da Riccardo Dardanelli, i lavori iniziarono su progetto dell’architetto Luciano Limonta di Savona e furono appaltati all’impresa Bessone & Dho di Mondovì. Attraverso varie perizie suppletive e di variante, l’attività edile proseguì negli anni successivi e fu sospesa all’inizio degli anni Ottanta. Nel frattempo era intervenuta la nuova riforma sanitaria che aveva creato le Unità Sanitarie Locali: Ceva e il suo territorio furono compresi nella n. 67.
La nuova amministrazione presieduta da Alberto Delucis, nel 1984, deliberò la ripresa dei lavori. Si rese necessaria l’esecuzione di interventi di difesa idrogeologica perché le fondazioni della struttura intercettavano una falda acquifera. Furono eseguiti dall’impresa Bozzolasco di Priero su progetto della Hydrodata s.p.a. di Torino. Le opere edili, sulla base di un nuovo progetto generale redatto dall’ingegnere Contardo Ferraresi di Pavia e dall’architetto Aldo Ligabue di Reggio Emilia, affiancati poi dall’ingegnere Giovanni Rigone di Pavia, furono affidate all’impresa dei fratelli Ferrero di Ceva.
Nell’autunno del 1990, si poté usufruire del nuovo complesso, che i successivi riordini del Servizio Sanitario Nazionale inquadrarono prima nell’ambito dell’ASL 16 di Mondovì-Ceva e ultimamente in quello dell’Azienda Sanitaria Locale CN1.
Da un po’ di tempo si assiste purtroppo ad un progressivo ridimensionamento della funzionalità dell’ospedale a causa dei tagli sulla Sanità imposti dalla Regione Piemonte.
La vecchia struttura di borgo Borgognone, dopo corposi interventi di ristrutturazione e ammodernamento, eseguiti negli ultimi anni del secolo scorso, venne destinata a sede dei servizi psichiatrici e distrettuali dell’ASL e ospita anche i servizi socio-assistenziali territoriali.