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Monumenti ed Architetture a Ceva


Associazione Ceva nella Storia - Chiesa della Consolata

Chiesa della Consolata     Torna all'indice


Nel sito dove oggi è costruita la chiesa della Consolata, fin dal basso medioevo, era venerata un’immagine della Madonna col Bambino, dipinta su un muro nei pressi di una fontana detta della Gottrosa, la cui acqua pare avesse particolari qualità terapeutiche. Tanta era la devozione che la gente di Ceva e dei paesi vicini professava per quel simulacro, che si venne nella determinazione di costruire in quel luogo una chiesa.

L’arciprete Ippolito Derossi pose ufficialmente la prima pietra il 10 giugno 1647, avutane autorizzazione dal vescovo di Alba monsignor Paolo Brizio (1597-1665).

L’area fu ceduta gratuitamente dai fratelli Antonio e Matteo Moretti. Il medico Stefano Calandri fu uno dei più ferventi e munifici fautori dell’edificazione fondandovi un beneficio e anche l’amministrazione civica concorse in parte alle spese.

Probabilmente, in un primo tempo, l’edificio religioso fu consacrato intitolandolo alla Natività di Maria Santissima, infatti in origine la festa principale, preceduta dalla novena, si celebrava l’8 settembre, giorno dedicato alla natività della Madonna. Questa denominazione era anche citata in un vecchio documento conservato presso l’archivio parrocchiale.

Per l’intensa frequentazione e per i conforti elargiti, ben presto tra i fedeli si diffuse un profondo culto per la Consolatrix Afflictorum, considerando la chiesa a livello di santuario e la “Consolata” diventò l’appellativo più consueto per individuarla, tramandandolo nel tempo. Molti altri lasciti e beni stabili furono legati ad essa, ma nel tempo andarono perduti od incamerati, soprattutto nel periodo del governo francese e successivamente con la confisca dei beni ecclesiastici previsti dalle leggi anticlericali sabaude.

Meta di numerose processioni nel corso dell’anno, organizzate dalla parrocchia o dalle varie Confraternite cittadine, fino alla metà dell’Ottocento, ancora in abbondanza di clero e di rendite, la chiesa era quotidianamente officiata da un proprio cappellano. Oggi è rimasta la messa nel giorno di San Rocco, il 16 agosto e durante il mese mariano si recita il Santo Rosario. Proprio in occasione della festa di San Rocco, essendo questi anche il protettore contro le malattie contagiose degli animali, fino ad alcuni decenni fa era tradizione benedire i buoi coperti di vecchie gualdrappe ricamate e si indiceva un’asta per un cappello e una frusta (il fuèt), oggetti tipici del bovaro, a beneficio della chiesa. Questa tradizione è perdurata fino alla fine degli anni Novanta, con la benedizione dei moderni mezzi agricoli.

Originariamente la chiesa era costituita da un unico fabbricato a base ottagonale. In tempi successivi furono aggiunti prima il corpo di facciata poi, nel 1843, la struttura più bassa a pianta circolare nella parte retrostante a cura del cappellano don Giuseppe Uberti. Questi interventi hanno avuto lo scopo di evidenziarne l’asse liturgico.

Lungo il perimetro si trova il piccolo campanile a vela con una sola campana.

La facciata si compone di due ordini architettonici sovrapposti e su quello superiore si evidenzia una scritta in latino a ricordo di una solenne processione del 22 maggio 1814, che si fece per ringraziare la Vergine per il ritorno del re sabaudo nelle sue terre, dopo il periodo di dominazione napoleonica. Il testo dell’epigrafe fu stilato dal padre agostiniano Franco, professore di retorica e recita:

Laetamini exultate Cives hic Deo grates Virginii Laudes Regi reduci aetatem ore corde dicite
(Rallegratevi, esultate, o cittadini, qui riconoscenti a Dio (recitate) le lodi alla Vergine (e) con la voce e con il cuore celebrate il periodo storico per il Re che ritorna)

L’ordine inferiore della facciata consiste in uno spazio porticato aperto su tre lati, con volta a cupola leggermente affrescata, che ripara il portale di ingresso sormontato da un frontone curvo spezzato.

L’interno si presenta suddiviso in due ambienti, quello con l’originaria superficie ad ottagono che attraverso una balaustra marmorea è separato da quello circolare costruito successivamente, che forma il presbiterio con l’altare maggiore.

L’altare è in marmi policromi, opera del 1868 dell’artigiano garessino Giuseppe Casabella. Su di esso vi è un’ancona in cui è raffigurata una Madonna incoronata col Bambino, inserita in un apparato decorativo che copre buona parte della curva absidale, quasi tutto realizzato con la tecnica del trompe l’oeil, che fornisce la voluta illusione prospettica.

Oltre all’altare maggiore vi sono altre due cappelle a lato dello spazio ottagonale: a destra quella di San Rocco, ricostruita nel 1835, a sinistra quella di Sant’Anna, entrambe con volta dipinta ed altari in muratura marmoreggiata e marmi variegati, con incisi sulla parte anteriore i monogrammi dei due santi. Le pale d’altare rappresentano i due santi, il primo con l’inseparabile cane, la seconda con Maria Bambina e san Gioacchino. Entrambe le volte a cupola dei due locali sono affrescate con medaglioni con raffigurati paesaggi, monumenti, stemmi, coppe che si alternano a motivi geometrici e floreali. Questi dipinti furono eseguiti dall’artista cebano Pietro Bergallo al tempo dell’ampliamento della chiesa.

Sovrasta l’ingresso un’ampia tribuna, sui cui pannelli sono pitturati a chiaroscuro degli strumenti musicali.

Sulla parete di sinistra a lato della balaustra vi è un pulpito, ricco di elementi ornamentali, mentre su quella di destra è appeso un massiccio manufatto di legno, artisticamente lavorato, con una piccola edicola contenente una statua della Madonna incoronata. La conformazione di questa struttura fa pensare alla parte sommitale di un vecchio altare, quale potrebbe essere stato quello centrale, prima della costruzione del presbiterio nel 1843.

Intorno sono affissi quadri della Vergine incoronata, un’Annunciazione ed alcuni di una serie dedicata al martirio dei Santi Apostoli, tra i quali si riconoscono quelli di san Pietro, sant’Andrea e san Giovanni evangelista. In un locale accessorio, tra altre tele in stato di completa rovina, è conservato un dipinto del pittore Carlo Deagostini del 1853, ancora in buone condizioni, che rappresenta un’ampia veduta panoramica di Ceva, vista dai paraggi dell’antica chiesa di Sant’Andrea.

La vecchia fontana della Gottrosa è stata incorporata nel fabbricato della chiesa e la sua acqua incanalata fino ad un pozzo poco profondo, in un locale adiacente ancor oggi accessibile.

L’edificio religioso è da sempre tenuto in condizioni di buon decoro; significativa l’opera svolta per decenni dall’indimenticato Giovanni Sciandra (1922-2007), ma è altrettanto degno di menzione il merito di tutti gli abitanti del rione, che dalla chiesa prese il nome ed è divenuto nel dopoguerra uno dei più popolosi della città. Nel 2000, l’impresa R.A.M. intervenne sulle coperture e la volta centrale, su progetto dell’architetto Massimo Pianicco, mentre nel 2006 la medesima ditta provvide al ripristino della facciata esterna e del porticato, contestualmente al recupero pittorico ad opera della restauratrice Francesca Bruno. La ditta Gallarini Bonollo intervenne sui dipinti murali interni e sull’immagine della Madonna in facciata.