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Gli autori che hanno preso in esame la storia di Ceva citano l’atto relativo alla fondazione dell’abbazia di Santa Maria dei Benedettini di Pinerolo, effettuata da Adelaide di Susa (1016-1091) contessa di Torino e vedova di Oddone di Savoia (1023-1057) figlio del capostipite della signoria, Umberto I Biancamano (980 ca.-1056 ca.).
La contessa Adelaide, signora a quel tempo della Marca Arduinica, fece dono ai monaci con rogito dell’8 settembre 1064, di un manso (appezzamento di terra con una superficie corrispondente a circa dodici giornate piemontesi attuali, cioè quasi 46.000 metri quadrati) nell’ambito della zona denominata Ceva (…infra villam Cevam…), come fu tenuto e coltivato da Giovanni Rosso, con mulini e battenderi (macchine mosse da una corrente d’acqua per rendere sodi tessuti di lana e pelli) e una cappella costruita in onore di sant’Andrea (…constructa in honore sancti andreae…) con tutte le cose appartenenti allo stesso manso.
L’atto adelaidino è il documento inconfutabilmente più antico finora conosciuto in cui compare l’appellativo della città, se si escludono i riferimenti di Plinio il vecchio, caseo... cebanum e di Columella, vaccae ... Cevas appellant, la cui attinenza con Ceva è ancora oggi fonte di discussione; la lapide citata dal Mommsen (L. Didius Caeva) ed una menzione, a detta dello storico padre Arcangelo Ferro, "ancora alquanto confusa", che indicherebbe cinque mansi in “Seva” tra le donazioni fatte nel 1028 alle monache benedettine, in occasione della fondazione del loro monastero in Caramagna. In tutti i casi è l’attestazione più remota che parla di un edificio religioso sul territorio cebano.
La chiesa si trovava adiacente a quella che nell’Ottocento era chiamata la cascina della Penitenzieria o anche di Sant’Andrea, al limite orientale della Piana, in cima al borgo della Torretta, agglomerato sorto e sviluppatosi certamente in epoca antecedente rispetto a quello intorno ed ai piedi del castello aleramico.
Le congetture di quasi tutti gli storici locali in relazione al periodo della sua erezione non si discostano da quanto riportato dal canonico Olivero nelle sue Memorie. Egli, chiamandole “vaghe tradizioni”, riferisce che in quel sito vi fosse primieramente un sacello pagano, dedicato ad Apollo, di cui si sarebbero rinvenute immagini ed iscrizioni, che vennero murate ristrutturando la cascina. Padre Arcangelo Ferro, sulla base di altri modesti reperti di epoca romana, che si diceva fossero stati trovati nel borgo della Torretta, ma dei quali già ai tempi dell’Olivero non vi era più traccia, ipotizzava invece che questa chiesa fosse la ricostruzione di un’altra, che avrebbe potuto essere la più antica pieve o parrocchiale di Ceva, risalente ai primi secoli del Cristianesimo. In ogni modo, stante la documentata attività e conseguente ovvia popolosità del borgo, come si evince dalla donazione di Adelaide di Susa, pare lecito supporre che vi esistesse una chiesa al servizio degli abitanti almeno dal X secolo, eretta in parrocchia almeno all’inizio, secondo l’opinione dei più, oppure solo in funzione di titolo del Piviere di Vico, dipendente dalla diocesi di Asti, come presupposto dallo storico Aldo Martini.
I Benedettini pinerolesi godettero del manso mantenendo un loro sacerdote per il servizio religioso della chiesa fino a che i nuovi marchesi, instauratisi a Ceva verso la metà del XII secolo, cominciarono ad appropriarsi, a titolo di feudo dei molini e dei battandieri.
L’inondazione del Tanaro, del 7 ottobre 1331, distrusse la parte inferiore del borgo Torretta e molte delle terre coltivabili che erano di pertinenza della parrocchia di Sant’Andrea, la cui popolazione si era sensibilmente ridotta a causa di questa calamità naturale. Questa ragione, unita al fatto che i marchesi Ceva nel frattempo avevano esteso i loro domini al di là del Tanaro, verso occidente, indusse il vescovo di Alba Pietro Avogadro, dopo la sua visita pastorale del 1338, a ritenere aggregabile alla sua diocesi questa parrocchia, proponendone al suo capitolo la soppressione e la trasformazione in canonicato in seno alla Collegiata di Santa Maria del Castello, dove intorno e nella piana sottostante si stava rapidamente espandendo ed assumendo importanza il nuovo nucleo urbano di Ceva.
Vi furono varie opposizioni a questo disegno, inizialmente del parroco in carica e alla sua morte dell’abate di Pinerolo, che chiese aiuto ai Visconti di Milano, acerrimi nemici dei marchesi del Monferrato, a cui i marchesi Ceva avevano giurato fedeltà nell’ambito delle contese tra astesi e Visconti. I milanesi assediarono Ceva nel 1351 e vi spadroneggiarono per alcuni anni e dopo la loro cacciata a furor di popolo nel gennaio del 1356, venne realizzato il progetto del vescovo Avogadro dal suo successore alla cattedra albese, il monsignor Lazzarino Fieschi († 1368). La chiesa di Sant’Andrea ed i suoi beni passarono sotto la giurisdizione parrocchiale dell’Arcipretura di Santa Maria de Castro, percependo le decime che si raccoglievano unitamente all’arcipretura stessa ed agli altri tre canonicati di san Pietro, san Michele e santa Margherita.
Nel 1780, su richiesta del canonico Mina, fu eretta in penitenzieria dalla Santa Sede.
Il canonico Celestino Ceva di Lesegno, ultimo discendente dell’antica casata marchionale, insigne benefattore della Collegiata, che servi in qualità di confessore straordinario per 55 anni, nel 1793 fece restaurare la parte dell’antica chiesa che era unita alla casa colonica, facendovi apporre un’iscrizione commemorativa in latino che ne ribadiva i passaggi storici essenziali: già edificata nel X secolo, eretta in canonicato nell’ambito di Santa Maria de Castro nel 1338, insignita del titolo di penitenzieria nel 1780.
Nel 1796 la cappella fu profanata dai francesi invasori e da allora non fu più officiata. Progressivamente andò in rovina e quasi tutti i suoi spazi furono inglobati nei successivi ampliamenti e ristrutturazioni della cascina, mantenendo comunque all’interno di questa evidenti segni della sua esistenza. Fu infatti in occasione dell’intervento di “restauro” di padre Celestino Ceva che l’antica chiesa di sant’Andrea assunse la consistenza che è possibile osservare tuttora.
Si tratta di uno spazio che taglia in modo trasversale l’odierno fabbricato dell’omonima cascina, all’interno della quale è incorporato, come anzidetto, separandone la porzione più vetusta rispetto ad un’addizione effettuata nel XX secolo.
La chiesa si presenta come un piccolo ambiente, planimetricamente molto articolato, sormontato da una volta a vela principale, alla quale sono affiancate altre due laterali di dimensioni ridotte.
Tutte mostrano una decorazione pittorica, che in alcune parti è ancora oggi molto ben conservata, specie sulla volta centrale, dove si evidenzia un catino dipinto a trompe l’oeil. L’accesso principale è laterale rispetto all’unico altare, realizzato in muratura a corredo del quale emergono ancora numerose tracce di stucco e decori policromi.
Esaminando con attenzione le strutture murarie della sezione più vecchia del complesso dei fabbricati che costituiscono l’odierna dimora colonica, si notano apprezzabili tracce che inducono a presupporre che precedentemente all’intervento del 1793 la chiesa di Sant’Andrea fosse molto più ampia e si estendesse fino ad occupare l’intera parte occidentale dell’attuale edificio. Sulla base di questa osservazione appare chiaro il fatto che quella che fu la struttura complessiva della chiesa di Sant’Andrea, così come si presentava dopo l’intervento di ripristino dell’abate Ceva, non fosse stata altro che l’estremo settore orientale della chiesa primitiva e, in particolare, corrispondesse alla porzione absidale.
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