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Questa cappella, chiamata anche di Santa Croce in una relazione dell’arciprete Onorato Mari del 1728, consiste in una struttura di modeste dimensioni eretta a ridosso del Palazzo Bianco.
La sua edificazione si ritiene possa risalire ai primi anni della seconda metà del Seicento, poiché don Vitichindo di Savoia, nel 1668 e l’abate Ottavio Pallavicino, nel 1671, legarono ad essa molte messe con i loro testamenti e disposizioni.
L’edificio di culto è disposto perpendicolarmente rispetto al fronte principale del palazzo e si affaccia sul cortile centrale, su cui entrambi hanno l’ingresso. In questo modo la facciata della cappella tenta di raccogliere e definire lo spazio di fronte all’ingresso medesimo, connotandolo. Essa è tripartita e si sviluppa su due ordini architettonici sovrapposti di paraste, sormontati da un frontone scanalato. Il fronte riprende le tonalità bianco e tortora del palazzo (bianco per gli elementi architettonici e tortora per gli sfondati), anche se non vi sono punti in comune tra le geometrie delle due costruzioni. Al centro si trova l’ingresso e sopra di esso, a livello del secondo ordine, si apre un’ampia finestra quadrata. Sulla destra, al di sopra del timpano, si nota il campanile del tipo a vela, di piccole dimensioni.
L’interno rivela una struttura con un evidente impianto centrale, con una dilatazione dello spazio in senso longitudinale, che mette in rilievo l’asse liturgico. Al centro della volta quattro pennacchi sorreggono un tamburo circolare sul quale è impostata una cupola semisferica la cui struttura fuoriesce dal tetto a capanna, conferendo esternamente alla chiesa una sagoma caratteristica. Al contrario dell’esterno, l’interno evidenzia un unico ordine architettonico dorico di paraste, che sorregge una trabeazione continua con cornice a dentelli, la stessa che si ritrova nel passaggio tra pennacchi e tamburo e tra tamburo e cupola. La luce naturale è assicurata dall’apertura sopra l’ingresso e da una piccola finestra nel tamburo che fa parte di un sistema di bucature e specchiature. Infatti, oltre le finestre prospicienti verso l’esterno, ve ne sono due che invece immettono in alcuni spazi privati del palazzo che fungevano da piccola tribuna, in piemontese corèt. Proprio in uno di questi la nobildonna Gabriella Della Chiesa di Cinzano, vedova del marchese senatore Giovanni Ignazio Pallavicino (1749-1825), la sera del 2 novembre 1841, inavvertitamente si avvicinò troppo ad una candela che diede fuoco alle sue vesti causandole ustioni che ne provocarono la morte neanche due mesi dopo.
L’intero ambiente è tinteggiato di colore bianco, tranne una piccola porzione sulla sommità della cupola, nella quale si riconosce la raffigurazione di una piccola volta celeste con un’immagine sacra al centro, non ben identificabile. Questo farebbe ipotizzare che in un primo momento anche altre superfici fossero dipinte, utilizzando un’ampia gamma di colori.
La chiesa è dotata di un solo altare, dedicato al Santo Crocifisso, in muratura riccamente decorato a stucco. Due colonne marmorizzate nere reggono una trabeazione sulla quale due volute inquadrano il cartiglio:
FIDE CRUCI, TOTA HOC PENDET VICTORIA SIGNO, HINC EREBI CLADES, HINC ANIMA SALUS. M.DC.XC.VII
(Attraverso la fede per la croce, tutta quanta la vittoria deriva da questo segno, da qui la sconfitta della morte *, da qui la salvezza dell’anima - 1697.
*Erebus, greco Ερεβος - letteralmente L’Averno, il Regno dei morti)
Una cornice in stucco, riportante un motivo naturale, contorna la caratteristica pala d’altare. Questa consta di un insieme artistico piuttosto inconsueto: una crocifissione con fondale dipinto su tela, in cui sono rappresentate Maria e le Pie Donne, con un crocifisso a tutto tondo scolpito in legno, probabilmente opera di un artista romano di fine Seicento.
Alle pareti vi sono quadri di epoche diverse in alcuni dei quali si riconoscono San Rocco, San Sebastiano e San Giovanni Battista.
In un quadretto, alla sinistra dell’altare, sono contenuti i preziosi cimeli che evocano tristi ricordi della famiglia Pallavicino, le piccole strisce di tela bianca con i numeri identificativi ed i due triangoli di stoffa rossa che avevano portato cuciti sui loro vestiti, come simbolo di prigionieri politici, le marchese Maria Camilla (1923-1989) e Maria Alessandra (1921-2013), deportate nel campo di concentramento nazista di Ravensbrück nel 1944-45, dal quale fecero fortunatamente ritorno.
Infine è presente un dipinto di autore ignoto con raffigurati i santi Filippo Neri, Francesco Saverio, Ignazio di Loyola, Isidoro l’Agricoltore e Teresa d’Avila, che potrebbe esser stato la vecchia ancona dell’attuale cappella dell’Addolorata nel Duomo, la cui originaria intitolazione fu appunto ai cinque santi canonizzati da papa Gregorio XV nel 1622 e che in seguito fu patronato della famiglia Derossi, con solo più il titolo di san Filippo, dedicata all’Immacolata e dal 1924 all’Addolorata. Il quadro fu acquisito dalla famiglia Pallavicino o le pervenne a merito di oblazioni fatte nei secoli alla fabbriceria del Duomo.
La chiesa è anche fornita di una sacrestia all’interno del palazzo, in un locale attiguo all’ingresso. Si tratta di un ambiente di notevoli dimensioni, voltato a padiglione, nel quale si aprono delle lunette sagomate.