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Monumenti ed Architetture a Ceva


Associazione Ceva nella Storia - Il Teatro Marenco

Il Teatro Marenco     Torna all'indice


L’edificio che accoglie il teatro comunale è intitolato a Carlo Marenco e risale al settembre 1861, quando si conclusero i lavori per la realizzazione di una struttura capiente ed idonea a soddisfare le necessità sceniche della compagnia di attori dilettanti locali e del suo pubblico.

Precedentemente, nei primi decenni dell’Ottocento, gli artisti recitavano in un salone situato in via Carlo Marenco al numero 103, al primo piano dell’abitazione della famiglia Bergallo. Questo salone-teatro, sul cui ristretto palcoscenico salirono anche attori professionisti provenienti da diverse compagnie, divenne ben presto troppo angusto dato che l’interesse cresceva continuamente in Ceva e nei paesi vicini.
Si rendeva quindi necessario trovare un locale più ampio ed adeguato, non solo per la ricettività, ma anche per la sicurezza e per consentire un appropriato allestimento degli impianti scenici degli spettacoli. La Società Filodrammatica chiese pertanto all’amministrazione civica ed alla cittadinanza di partecipare alla costruzione di un vero e proprio teatro.
Il luogo adatto a tale scopo fu rinvenuto in via Pallavicino, nell’edificio dove era situata la casa di detenzione, nel periodo in cui Ceva fu eretta capoluogo di Provincia, a seguito delle patenti di Carlo Emanuele II del 1650, 1651 e 1658. Soppressa la Provincia (1722), le prigioni vennero dismesse e si mantennero solo più alcuni vani da adibire a carceri mandamentali (in quel tempo, per i prigionieri di stato e per i condannati per reati speciali, erano predisposte le segrete all’interno della Fortezza). L’intero immobile cadde in uno stato di degrado tale da diventare un costo molto oneroso per le finanze del Municipio. A testimonianza dell’esistenza in quel luogo di locali di reclusione, vi è ancora la scritta in francese sulla facciata del fabbricato di fronte, che ne indicava la destinazione ad ambienti riservati alle forze dell’ordine: Sureté publique - Obediance aux lois.

Nel 1853, necessitando la Città, tra l’altro, della realizzazione di un macello pubblico di debite dimensioni ed igienicamente sicuro, il sindaco Lorenzo Maria Siccardi propose che il primo piano dell’edificio, dopo opportuna ristrutturazione, fosse destinato a mattatoio e laboratorio per la lavorazione delle carni e che al secondo piano, per appagare le richieste della Società Filodrammatica e della popolazione, si creasse un’adeguata struttura per le rappresentazioni teatrali e le assemblee pubbliche. Venne affidata la progettazione ai professionisti Luigi Mazzolino e Carlo Dompé, che compilarono e consegnarono gli elaborati l’anno successivo. L’epidemia di colera che infestò la città nel 1855 non consentì però di procedere all’avvio dei lavori, in quanto le somme accantonate furono stornate per affrontare i gravi problemi derivati dal contagio.

Terminato questo periodo di emergenza, dopo alcune vicissitudini di carattere tecnico-amministrativo, riemerse la generale intenzione di provvedere all’edificazione dell’immobile. Il 22 novembre 1858, grazie al sindaco Enrico Barberis, il Comune deliberò di concedere alla Filodrammatica il sito e di contribuire con la somma di Lire 6.000 da erogarsi in cinque anni. Quest’ultima, disponendo solo di Lire 1.000, mentre le spese di costruzione erano calcolate in Lire 16.000, stabilì di vendere a privati 41 palchi del costruendo teatro a Lire 230 cadauno, per ottenere i fondi mancanti. I palchi rimanenti sarebbero rimasti a disposizione del Municipio.

Una commissione mista tra Società e Comune stilò i termini dell’apposita convenzione stipulata tra i due enti e su progetto dell’ingegnere cebano Donato Levi, affiancato poi dall’ingegner Bianchetti, si iniziarono i lavori nell'aprile del 1860. Benché la Società Filodrammatica si fosse impegnata a completare le opere in cinque anni, queste furono portate a compimento nel giro di quattordici mesi. Ciò indusse gli attori ad un tour de force artistico per reperire, in tempi brevi, gli importi necessari all’iniziativa. Si impegnarono pertanto in recite straordinarie, epiche furono le numerose repliche de La Passione di Cristo, presso i famosi Cameroni della Filanda Siccardi, al borgo Sottano.

I lavori terminarono dunque alla fine di agosto del 1861 e l’amministrazione comunale decise di intitolare il teatro al grande drammaturgo, ex sindaco e benefattore cebano, Carlo Marenco. L’inaugurazione ufficiale avvenne il 28 settembre dello stesso anno, con la rappresentazione de La Pia de' Tolomei, tragedia del medesimo, a cui fecero seguito il 29 settembre La locandiera di Carlo Goldoni ed il 30 Francesca da Rimini di Silvio Pellico. L’insieme degli interpreti era formato da attori professionisti affiancati da alcuni filodrammatici locali.

Ceva poteva pertanto vantare un teatro con peculiarità tali da essere degno di stare accanto alle più nobili sale della provincia, dotato di un’acustica eccezionale, con i suoi 48 palchi, la platea e la galleria, per una capienza complessiva di circa duecentocinquanta spettatori.
I manufatti in legno furono opera dell’artigiano cebano Alessandro Boasso (1819-1905), gli affreschi del soffitto e dei palchi vennero eseguiti dal pittore Giuseppe Vigna, il tendone fu dipinto dall’artista locale Vincenzo Odello. I palchi del secondo ordine e quelli dei primi due del proscenio furono dedicati ad illustri personaggi dell’arte letteraria, drammatica e musicale italiana del Settecento e dell’Ottocento: Alfieri, Baretti, Bellini, Boito, Cavallotti, Donizetti, Giacosa, Goldoni, Manzoni, Marenco, Mascagni, Monti, Niccolini, Novelli, Pellico, Ponchielli, Puccini, Rossini e Verdi. Sopra l'ingresso alla platea di fronte al palco venne collocato un busto in bronzo di Carlo Marenco, in seguito sostituito da quello attuale.

Iniziò così un’intensa attività di sala, con alti e bassi ed anche periodi di inattività, il tutto legato e condizionato dagli eventi storici e dai momenti in cui la Società Filodrammatica era più o meno in auge. La funzione del Marenco non si limitava comunque alle sole rappresentazioni teatrali, ma la struttura divenne anche luogo di incontro durante i veglioni di carnevale e di fine anno ed ancora sede deputata per comizi politici, convegni culturali e concerti. Anche la Società Filarmonica era molto attiva a quei tempi.

Il teatro fu pure adibito a sala cinematografica dal 1934 fino alla metà degli anni Sessanta. Nel 1932, anche in funzione di interventi di risanamento urbanistico, furono apportate modifiche strutturali allo stabile, mediante l’abbattimento di alcuni locali sul lato sud, di proprietà del teatro, ma occupati dalla Banda musicale cittadina, che dovette trovarsi un’altra sede. In questo settore venne realizzata la facciata principale, caratterizzata al primo piano da un’ampia ed elegante terrazza dotata di balaustra, sostenuta da pilastri decorati con un ordine architettonico, tra i quali si aprono le grandi vetrate del foyer al piano terra. Al di sopra della terrazza il prospetto è scandito da una sequenza di lesene su cui è impostato un frontone di forma triangolare, al centro del quale spicca lo stemma della Città.

Dopo la forzata interruzione delle iniziative negli anni più bui dell’ultimo conflitto, gradualmente ripresero rappresentazioni sceniche, veglioni e proiezioni cinematografiche, ma intanto l’incipiente benessere stava portando verso nuove forme di intrattenimento, soprattutto quello domiciliare fornito dalla televisione. Fu così che, a poco a poco, anche per un’accentuata inadeguatezza alle nuove norme di sicurezza, gli spettacoli cominciarono a diradarsi fino a determinare, verso la metà degli anni Sessanta, la completa dismissione della struttura con il conseguente avvio di un ineluttabile processo di degrado.

La passione dei cebani per le varie forme di arte teatrale, però, non era mai venuta meno né si disconosceva la funzione sociale del teatro, ma occorreva un corposo intervento di restauro strutturale ed ammodernamento impiantistico che era oneroso ed anche coraggioso.

Questo fu possibile per merito della nuova amministrazione che, coordinata dal presidente Riccardo Luciano (Dado), nei primi anni Settanta svolse un encomiabile lavoro. La somma a disposizione era limitata, ma si riuscì tuttavia a terminare la ristrutturazione grazie alle donazioni di privati, all’intervento dell’amministrazione comunale, all’opera gratuita di alcuni artigiani, commercianti e professionisti locali e di molti altri che contribuirono in vari modi, come i proprietari dei palchi, che li vendettero alla cifra simbolica di una lira. Il teatro tornò così in breve tempo al suo originario splendore.

La nuova inaugurazione si tenne il 29 giugno 1975 alla presenza dell’allora ministro per il turismo e lo spettacolo, il senatore Adolfo Sarti, oltre ad un numerosa schiera di altre autorità civili, militari, religiose di ambito locale, provinciale e regionale. Da allora e fino ad oggi, le varie direzioni, che si sono succedute nella gestione del teatro, hanno saputo diligentemente proporre agli appassionati una serie infinita di spettacoli di prim’ordine, ingaggiando costantemente attori e compagnie di livello nazionale. Non è stata tralasciata però l’opportunità di dare il giusto spazio anche a gruppi dilettantistici e dialettali, altrettanto artisticamente validi, favorendo contestualmente la rinascita e l’attività di aggregazioni di filodrammatici cebani che, attraverso ovvi ricambi generazionali, hanno, in questi ultimi quarant’anni, dilettato il pubblico con numerose e gradevoli recite, andando a ricreare le magiche atmosfere di un tempo. Naturalmente, come in passato, gli ambienti del teatro continuano ad essere messi a disposizione anche per concerti, balletti, celebrazioni, convegni, comizi, incontri culturali ecc.

Il celebre comico torinese Erminio Macario (1902-1980), cebano d'adozione, la seconda moglie Giulia Dardanelli era di Ceva, calcò più volte le tavole del palcoscenico del Marenco ed ebbe a paragonarlo ad una "bomboniera".

Durante alcuni scavi effettuati nel 1978, per la sistemazione dell’accesso al teatro da via cardinale Adriano Ceva, venne in luce un'antica colonna cilindrica in conglomerato e laterizio, di consistente dimensione (diametro 90 cm. circa), rozza modanatura e impronta romanica, tuttora accuratamente mantenuta visibile, che faceva parte, molto probabilmente, della struttura della chiesa di Santa Maria di Piazza (Sancta Maria de Platea), che alcuni indizi danno per esistente su questo sito fino al Seicento, ma non più officiata e andata in rovina molto tempo prima.

Nel 2007, su progetto dell’architetto Andrea Briatore vennero realizzati una serie di interventi di restauro conservativo e ulteriori lavori al fine di risolvere i problemi dovuti alle infiltrazioni ed all’umidità. Dopo molti anni il soffitto affrescato venne recuperato e rimesso in mostra. Si rinnovarono pure gli impianti scenici. Nel ripristino dei muri esterni, dal lato prospiciente via Pallavicino, si lasciarono in vista alcune fessure oltre a tamponamenti e riattamenti con laterizi di diversa forma ed epoca, con lo scopo di evidenziare, come anzidetto, le tracce delle probabili addizioni e modifiche edilizie eseguite, in sede di costruzione delle prigioni prima e del teatro poi, sull’antica struttura della chiesa di Santa Maria di Platea.