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Monumenti ed Architetture a Ceva


Associazione Ceva nella Storia - Istituto Derossi

Istituto Derossi     Torna all'indice


L’Istituto, chiamato řo Shpisi in vernacolo cebano, venne fondato dal cavalier Francesco Amedeo Derossi (1699-1779) con testamento del 17 dicembre 1779 e dal fratello monsignor Giuseppe Tommaso, vescovo di Alessandria (1708-1786). I due benemeriti promotori stabilirono che doveva essere amministrato dalla Congregazione di Carità e doveva accogliere i bambini poveri, specialmente gli orfani, di ambo i sessi con la precedenza per i cebani, poi quelli delle terre vicine ed infine i provenienti da tutto il Marchesato di Ceva. Alla morte dei fondatori, non essendo stata ancora istituita in Ceva detta congregazione, il Governo sabaudo suggerì all’amministrazione civica di nominare gli amministratori e i direttori per la pia istituzione. Inizialmente, nel 1787, era chiamato Ospizio di Carità ed ospitò solo adolescenti di sesso femminile e la sua sede era in una casa al borgo Sottano. Per effetto della soppressione degli ordini religiosi voluta da Napoleone, nel 1802 gli fu assegnato il dismesso convento dei Cappuccini, ove rimase fino al ritorno dei religiosi nel 1816, quando fu trasferito nell’immobile in Valgelata, dove si trova tutt’ora. Questo fabbricato, che era di proprietà dell’avvocato Giovanni Battista Greborio ed ereditato dall’Ospedale, pervenne all’istituto in seguito alla permuta con un altro situato davanti al Duomo, poco adatto allo scopo.

L’Ospizio per la sua sopravvivenza poté giovarsi costantemente della generosità dei cebani, tra cui si distinsero particolarmente: Carlo Antonio Chiavelli († 1793), aristocratico cevese comandante della Cittadella di Mondovì, don Pio Bocca e Leopoldo Nobile (1785-1853) che lasciò tutti i suoi averi.

Nel 1854, a seguito di un regio decreto, l’Orfanotrofio passò sotto l’amministrazione della Congregazione di Carità che si era all’uopo costituita in città.

L’istituto ospitò nella sua sede di Valgelata, al primo piano del fabbricato, l’Asilo infantile dal 1862 al 1884, quando fu edificata la sede per quest’ultimo.

Due figure sono degne di particolare menzione per la loro attività nell’ambito dell’Ospizio nel corso del secolo passato: suor Teresa Bombelli (1910-1954) ed il canonico Giovanni Battista Torelli (1878-1956). Suor Teresa, nativa di Legnano, apparteneva alla congregazione delle Suore del Cottolengo di Torino. Da superiora dell’Istituto si prodigò con zelo e profonda carità cristiana ed estese anche la sua opera assistenziale ai cittadini cebani più bisognosi, soprattutto durante il periodo dell’ultima guerra. Per i suoi meriti le fu assegnata la cittadinanza onoraria e le fu dedicata una via della città. Il cebano don Torelli, per quarant’anni fu direttore diocesano dell’Apostolato della preghiera e per cinquanta canonico penitenziere della Collegiata di Ceva, diresse con encomiabile dedizione il Derossi dal 1903 al 1956, anno della sua morte. Anche a lui il Comune intitolò una strada.

Nel dopoguerra nella struttura potevano accedere anche semiconvittori esterni ed una parte degli spazi fu destinata a collegio-convitto per studenti di ambo i sessi. Nel 1983, il ridotto numero di utenti, l’inadeguatezza delle strutture ai nuovi parametri previsti per gli istituti residenziali ed il conseguente trasferimento della congregazione delle religiose ne imposero la chiusura per circa un ventennio. A seguito di importanti interventi di ristrutturazione nel 2006 e, soprattutto grazie al cospicuo contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, l’edificio venne trasformato nell’attuale casa di riposo per anziani e disabili, aperta nell’aprile 2007, la cui gestione è affidata ad una cooperativa sociale di servizi.
Nonostante i cambi di destinazione d’uso subiti nel corso degli ultimi due secoli (abitazione signorile, orfanotrofio, asilo, casa di riposo) questo edificio ha sostanzialmente mantenuto la sua immagine ottocentesca, ovvero quella di un palazzo sviluppato attorno ad un cortile interno, con la conservazione di gran parte degli elementi strutturali dell’epoca.

Quello che oggi sembra essere un unico corpo di fabbrica in realtà è il risultato dell’unione di più edifici preesistenti, alcuni riconducibili al periodo medievale, nonché di numerose addizioni. Il fronte principale su via Derossi presenta alcune tracce evidenti, come lo sfalsamento della scansione e il numero dei piani nella parte sinistra della facciata, ad indicazione che in origine quest’ultima costituiva una costruzione a sé. Altro indizio di rilievo è la presenza, nella parte destra della facciata, di un pilastro in arenaria incassato nella parete e riportato in vista durante gli ultimi lavori di restauro. Si tratta dell’unica traccia di epoca medievale visibile ad occhio nudo e consiste nel sostegno di un portico non più esistente, sul cui capitello era presente un’iscrizione erosa al punto da non essere più leggibile nella sua completezza.

Recenti analisi sul frontespizio hanno rivelato la presenza di resti di finestre medievali a sesto acuto a livello del primo piano, nonché tracce di un arco di portico in corrispondenza della sopracitata parte sinistra, confermando l’ipotesi che si trattasse di un singolo edificio. Altro dato interessante riguarda la porzione destra che è stata realizzata in un momento diverso rispetto alla parte adiacente. Nonostante tutto ciò l’affaccio sulla via ha un aspetto regolare, con il portale d’ingresso posto al centro; di questo rimangono originali soltanto la cornice e la rosta in ferro sopra il varco. Unici altri segni del palazzo ottocentesco sono il cornicione e le specchiature di forma ovale sopra le finestre del secondo piano.

Un braccio del complesso caratterizzato da ampie finestre si allunga verso destra sovrastando l’attuale area parcheggio, si tratta di quella che in origine era la cucina dell’orfanotrofio, costruita appositamente in seguito all’aumentato numero di ospiti a partire dalla metà del secolo scorso.

Su piazzetta Piantabella un elegante arco di mattoni con cancello in ferro battuto dà accesso al piccolo cortile interno, su questo si affacciano alcuni balconcini con ringhiera in ghisa.

Il complesso ha un’estensione tale da arrivare fino al pendio che scende dalla pianura del Campanone e di conseguenza, a livello del secondo piano, si trova un’ampia area verde pianeggiante chiusa da un muro di cinta, un tempo adibita a orto e giardino. Qui, lungo un muro contro terra, due aperture introducono in un lungo ambiente ipogeo, scavato dentro la collina, rivestito da archi e volte a botte in mattoni. In origine questo spazio probabilmente fungeva da ghiacciaia e oggi non è praticabile poiché riempito da macerie; alcuni testimoni ricordano che durante la Seconda Guerra Mondiale questo antro venne utilizzato come rifugio antiaereo. Questo giardino un tempo era attraversato da una sorta di canale irriguo in pietra incavata e a ridosso del muro di recinzione era presente una fontana costituita da un blocco di arenaria scolpita e scanalata, con un mascherone sul fronte. Si trattava senza ombra di dubbio di un doccione di epoca medievale (elemento in pietra utilizzato per scaricare l’acqua piovana dai tetti di palazzi o chiese) che, venuto meno alla sua originaria funzione, era stato riutilizzato come fontana, murandolo nella cinta del giardino. Purtroppo di questo importante manufatto non rimane altro che qualche fotografia e la porzione di esso incassata nel muro.

All’interno del complesso sono rimaste tracce del XIX secolo nelle volte, che numerose appaiono intatte nella forma, e nell’elegante corpo scala centrale, pressoché inalterato. Questo, come in passato, costituisce il collegamento verticale principale sviluppandosi per tutta l’altezza dell’edificio; è caratterizzato da lesene e volte a crociera sostenute da pregevoli capitelli pensili in stucco, le prime rampe conservano ancora i gradini in arenaria originali. All’interno del complesso era presente una piccola cappella al secondo piano, nell’angolo sud-orientale. Purtroppo ad oggi non è rimasto nulla di questo ambiente, se non alcune rare immagini fotografiche. Da queste si deduce come lo spazio non fosse molto ampio e di altezza paragonabile a quella di un normale locale di abitazione, con l’altare addossato sul fondo, sormontato da una statua della Madonna. Le superfici erano interamente decorate e la volta, a padiglione, raffigurava una cappa celeste.