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Sino alla seconda metà dell’Ottocento non si ebbe una vera e propria sede municipale. Nei secoli precedenti i consiglieri si riunivano presso varie strutture, tra cui l’oratorio di Santa Maria adiacente al convento dei Francescani. Negli statuti della città di Ceva del 1357 si stabiliva che la durata dell’intero consiglio era di sei mesi, mentre il sindaco, scelto fra gli abitanti dei quartieri di Ceva per turnum, non poteva essere rieletto prima di due anni. Verso il 1683, la sede del municipio si trovava presso l’edificio, da poco eretto, accanto al sito su cui sarebbe poi stata costruita la chiesa dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina. In seguito si trasferì nello stabile di proprietà dell’Ospedale, in via Pallavicino al numero due.
L’attuale palazzo comunale si affaccia su piazza Vittorio Emanuele II ed occupa l’area dove precedentemente vi era la chiesa del Corpo del Signore, detta anche di Santa Elisabetta, che i francesi nel 1812 decisero di abbattere per costruirvi un mercato al coperto. Non va dimenticato l'anticlericalismo degli stessi, ai quali poco importava che la Compagnia delle Umiliate di Santa Elisabetta potesse disporre di un luogo di preghiera, per cui i pilastri che già erano stati innalzati per la ricostruzione dell’oratorio minacciante rovina, furono utilizzati per dare inizio all’edificazione della nuova struttura mercatale. Successivamente il governo napoleonico ampliò il primitivo progetto, creando una sede per l’amministrazione municipale, che avrebbe inglobato anche la sottostante ala destinata al mercato coperto.
I lavori però si interruppero presto, in quanto nel 1814 venne a cessare l’occupazione francese. Un ventennio più tardi l’avvocato Moretti, allora sindaco, faceva presente al Consiglio l’enorme spesa che si stava sostenendo per l’affitto dei locali della Giunta e dei vari uffici comunali dislocati per la città. Quattro anni dopo il sindaco Carlo Marenco decise di creare una sede municipale unica. Ordinò che si coprisse il tetto dell’ala prevista per il mercato e si iniziasse a costruire i muri maestri del nuovo stabile. Per esiguità di fondi però si procedette piuttosto a rilento.
Nel 1855, Clemente Rovere (1807-1860), funzionario regio e disegnatore di Casa Savoia, illustrò il palazzo municipale. Questo era costituito da un fabbricato di dimensioni più ridotte rispetto ad oggi ed occupava solamente la parte occidentale dell’odierno edificio, le prime quattro campate del portico partendo da sinistra. Dal disegno si intuisce come il fronte su piazza Vittorio Emanuele II presentasse un’architettura ricercata e che questo si sviluppasse, come oggi, per quattro piani fuori terra. Già allora era dotato del caratteristico spazio porticato al piano terreno, le cui campate erano inquadrate da un ordine architettonico. Sopra di esso lo sviluppo verticale del palazzo era scandito da due ordini architettonici sovrapposti, sormontati da un piano attico, che si estendevano solamente con due campate e inquadravano due coppie di finestre per piano. Il palazzo aveva un balcone a livello del secondo piano della parte destra della facciata, che probabilmente costituisce una parte del balcone presente oggi al centro del fronte. Altro particolare che emergeva erano gli emblemi della città, riportati più volte, forse in bassorilievo, all’interno dello spazio pieno interposto tra una finestra e l’altra della facciata.
Negli anni successivi l’amministrazione acquisì il fabbricato adiacente, ampliando la sede municipale e conferendogli così l’attuale aspetto. Infatti, nel 1860, la giunta aveva affidato la progettazione dei lavori all’ingegnere cebano Donato Levi.
Il palazzo fu ultimato nel 1866, durante il mandato del sindaco Silvano Pietro. La spesa totale dei lavori ammontò a 24.000 lire.
L’edificio odierno si sviluppa su tre piani, la facciata presenta al pian terreno un porticato con sette archi. In quello centrale vi è un’artistica fontana in marmo bianco con lo stemma della Città. Questo spazio fu occupato fino al 1985, quando fu trasferita al Brolio, dalla pregevole scultura bronzea di Giuseppe Cerini (1862-1935) “Ai Caduti per la Patria … Ceva” che nel 1926, all’epoca della sua realizzazione, era stata collocata sotto l’arco laterale di sinistra del palazzo.
Sotto il balcone del secondo piano il 28 ottobre 1894 vennero posizionati due busti marmorei, opere dello scultore torinese Alessandro Casetti, a sinistra quello di Carlo Marenco, drammaturgo e sindaco della città, a destra quello di Stefano Degioannini (1834-1888), l’ufficiale cebano che contribuì a salvare la vita del re Umberto I (1844-1900) da un attentato anarchico a Napoli nel 1878. Le due sculture furono realizzate a cura di due comitati costituitisi all’uopo. Quello per Degioannini era presieduto dall’avvocato cebano Ferdinando Siccardi (1833-1906), deputato e senatore del Regno per più legislature. A quello per Carlo Marenco, alla cui presidenza onoraria fu nominato il figlio Leopoldo (1831-1899), aderirono numerose illustri personalità dell’ambito letterario, giornalistico e teatrale nazionale tra cui: Vittorio Bersezio, Felice Cavallotti, Giuseppe Giacosa, Giovanni Verga, Eleonora Duse, Francesco Pasta, Adelaide Tessero.
Sotto il porticato, alla destra del portone di ingresso ai piani superiori, è collocata una lapide a ricordo dei sei combattenti di Ceva caduti durante le Guerre di Indipendenza (Pietro Bertino, Giuseppe Eula, Pio Garrone, Giuseppe Odetto, Giuseppe Rebaudengo, Michele Rossi),
Un’altra artistica targa è apposta in facciata, su uno dei pilastri del portico, in memoria di tre eroi cebani morti in guerre d’oltremare (tenente colonnello Giuseppe Galliano - 1896 - Guerra d’Abissinia; sottotenenete di vascello Ermanno Carlotto - 1900 - Guerra dei Boxer in Cina; tenente Vittor Gerbino-Promis - 1913 - Guerra italo-turca in Libia).
Murati lungo le rampe dello scalone interno sono visibili due cippi in arenaria di epoca romana, lì collocati nella primavera del 1968.
Steli di epoca romana
Diversi storici del passato nelle loro dissertazioni hanno avanzato dubbi sulla effettiva esistenza di un consistente nucleo abitato ai tempi della dominazione romana sul territorio attualmente occupato da Ceva, ritenendo anche poco attendibili i due principali e più remoti riferimenti scritti: il ...caseo...Cebanum... , il formaggio citato da Plinio il Vecchio (23-79) nella sua Naturalis Historia (libro XI, cap. 97) e la menzione di Columella (4-70) relativa alle vaccae... Cevas appellant, le mucche chiamate Ceve, nel De re rustica (libro VI, cap. 24). Altri studiosi invece hanno ipotizzato che Ceva fosse un municipio romano e non solo un modesto vicus (agglomerato di case e terreni) o una villa (villaggio rurale). Rimandando a successive circostanze l’approfondimento in questione, ci si limiterà alla descrizione dei due reperti di epoca romana attualmente custoditi nel palazzo del Comune di Ceva.
Il primo, nel 1914, era stato catalogato nell’Elenco degli Edifici Monumentali della Provincia di Cuneo (Roma, tipog. operaia romana cooperativa, 1914) ed era murato in un cortile di una casa di via Umberto I, di proprietà di Baricalla Attilio Giuseppe. Il manufatto proveniva da Marsaglia, dove era stato rinvenuto, tra la settima e l’ottava decade dell’Ottocento, durante lavori di scavo effettuati nei pressi della cascina denominata Tarè. I successivi proprietari dell’immobile di via Umberto I nel 1968 ne fecero dono al comune di Ceva. Si tratta di una lastra funeraria in arenaria a forma di parallelepipedo, (120x45x12 cm). Una delle facce più grandi ha scolpito: nella parte superiore un piccolo tempio pagano, con antefisse a forma di ventaglio (o palma) ed il portale con cornice decorata, in quella inferiore la figura della testa di un lupo (lupa simbolo di Roma?) con le fauci spalancate (qualcuno invece la individuò come una testa di cinghiale). Nell’iscrizione al centro, in parte cancellata dallo sfaldamento della pietra, si legge: Publius Terentius Publii filius, Publilia, Varro (Publio Terenzio, figlio di Publio, della tribù Publilia, Varrone). Alla tribù Publilia appartenevano gli abitanti di Albenga (Albingaunum), ma anche gentes (gruppi di famiglie) mandate a colonizzare le terre dell’Alta Val Tanaro e della Langa Sud-Occidentale.
La seconda stele fu scoperta nel 1958 durante gli scavi per il rifacimento di una fognatura in contrada Valgelata, non lontano dalla chiesa di San Carlo. Anche questa è in arenaria lavorata (78x18x15 cm) e fungeva da lastra di copertura della fogna. Nella parte superiore porta incise tre lettere: O D C e sotto queste una croce latina di circa 6,5 x 5 cm. Nel 1946 in località Carrettini del comune di Sale San Giovanni ne fu rinvenuta un’altra di pressoché uguali dimensioni e con la stessa scalpellatura (ODC †). Secondo lo storico padre Arcangelo Ferro (1888-1978) entrambi i cimeli non sarebbero delle lapidi sepolcrali, ma cippi terminali romani di epoca cristiana, tenuto conto anche della loro struttura, rifinita nella parte superiore e lasciata a rustico in quella inferiore, che rimaneva piantata nella terra. La croce a forma latina le farebbe risalire al IV o V secolo e le tre lettere potrebbero essere le iniziali di una dedica a Nostro Signore, come suggerisce la presenza della croce medesima, dove la O indicherebbe Optimo oppure Omnipotenti, la D Domino o Deo e la C Christo.
Un’altra testimonianza di “romanità”, questa volta riferita al termine “Ceva”, è fornita dallo storico ed epigrafista tedesco Theodor Mommsen (1817-1903) che, nell’opera Corpus Inscriptionum Latinarum (vol. V, parte II) edita nel 1877, descrive il rinvenimento a Monesiglio di una lapide, che fa risalire al I o II secolo d. C., su cui è menzionato L. Didius Caeva (il termine Caeva indica il cognome della famiglia, che avrebbe potuto derivare dal nome della città da cui proveniva).