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Monumenti ed Architetture a Ceva


Associazione Ceva nella Storia - Portici e via Carlo Marenco

Portici e via Carlo Marenco     Torna all'indice


Dinnanzi alla scalinata del Duomo si sviluppa via Carlo Marenco, fulcro vitale della città, caratterizzata da portici su ambo i lati, sotto i quali hanno sede molte attività commerciali.

Una vecchia espressione idiomatica, tipica dei cebani che abitano fuori del centro storico, è dire “…vado in Ceva…” per indicare che si va sotto i portici, forse a ricordare ancora il significato di vivere dentro o fuori le mura della città medioevale. Via Carlo Marenco si presenta molto ricca, sia dal punto di vista storico che da quello architettonico. In epoca contemporanea i cebani più illustri ebbero qui la loro casa e fin dalla sua fondazione, nel periodo medievale, i cittadini più facoltosi vi costruirono i loro eleganti palazzi. Come anzidetto la via è di origine medievale e la maggior parte degli archi dei portici presenta forme tipiche di questo periodo. Percorrendola e osservando i dettagli che emergono qua e là si fa un salto indietro nel tempo, passando improvvisamente da un’epoca all’altra.

Procedendo con ordine, partendo dal Duomo, si osservano i resti di una meridiana su una casa del XVII secolo all’angolo con via Pallavicino. Di seguito a questa si trova una facciata medievale in stile ligure, sulla quale appare ancora ben evidente l’apparato pittorico bianco e nero, nonché la sagoma delle bucature a sesto acuto. Andando oltre, all’incrocio con via Roma, si nota quello che è considerato “il più bel balcone di Ceva”, una struttura ad angolo del XIX secolo le cui lastre di arenaria, oltre ad essere sostenute dai soliti modiglioni in pietra, poggiano sui resti di una possente mensola che in età medievale reggeva lo sbalzo della facciata su via Roma.
Particolarmente interessante è la bifora del XIV secolo, recentemente riportata alla luce in seguito ad un intervento di restauro della facciata dell’edificio in cui è sistemata. Lo stelo centrale in arenaria è stato ritrovato all’interno dell’incavo della bucatura stessa, spezzato in diverse parti. Durante i lavori è stato ricomposto e riposizionato nella sua originaria collocazione.
Dettaglio degno di nota è la mensola in arenaria del balcone al primo piano della casa posta all’angolo con via Barberis, che presenta un mascherone scolpito e, come quella all’angolo con via Roma, nel medioevo reggeva lo sbalzo della struttura in legno della facciata. Recenti interventi di restauro delle parti esterne dell’immobile hanno riportato in luce la chiave di volta dell’arco di sinistra prospiciente via Carlo Marenco, con sopra scolpito un pentagramma al cui interno vi è una rosa (vedi approfondimento in fondo a questa pagina).

Oltre ai pregevoli edifici medievali, vi sono alcuni palazzi del XVIII-XIX secolo, primo tra tutti il Palazzo Moretti, che fu di proprietà dell’avvocato Antonino Moretti (1760-1839), giureconsulto, presidente del tribunale di prima istanza a Torino e sindaco di Ceva. Qui vennero ospitati: Napoleone Bonaparte (1769-1821) il 20 aprile 1796, durante la sua prima campagna d’Italia e Papa Pio VII (Barnaba Chiaramonti 1742-1823) il 16 agosto 1809, durante il suo tragitto di trasferimento da Grenoble a Savona prigioniero dei francesi per ordine dello stesso Bonaparte. Entrambi si affacciarono dal balconcino di sinistra, al secondo piano, della parte del fabbricato prospiciente piazza Vittorio Emanuele II. Napoleone di lì scorse Il Castello e vi si recò, rimanendo per alcune ore ospite del marchese Cosma Damiano Pallavicino (1719-1800). Il Papa impartì la sua benedizione ai fedeli, accorsi in massa nella piazza, prima di essere condotto via dai suoi carcerieri. Questo grande stabile è caratterizzato da decorazioni in stile rinascimentale e occupa ben cinque campate di portici e la struttura si protende, come già accennato, fino alla retrostante piazza Vittorio Emanuele II. Alla stessa maniera di altri casi, la costruzione dell’immobile nel XVIII secolo ha inglobato diversi fabbricati del periodo medievale, come è possibile dedurre dalla presenza di due chiavi d’arco in arenaria, riportanti l’emblema della trecentesca famiglia Giogia e una torre ghibellina, posti rispettivamente sulla seconda e sulla quinta campata dei portici. Di seguito si incontra il Palazzo Bocca, che fu della omonima famiglia, munifica benefattrice della città, realizzato su strutture medievali e che ha assunto l’attuale elegante conformazione nel 1833.

Come anticipato, in questa via ebbero la propria abitazione personaggi illustri come Carlo Marenco a cui la via è intitolata, celebre drammaturgo e sindaco benemerito che si prodigò per migliorare la città; il pittore Pietro Bergallo che ospitò in un salone della sua grande abitazione un teatro, prima della costruzione, nel 1861, di quello attuale dedicato a Carlo Marenco; la casa natale del capitano Giuseppe Lamberti (1911-1995), comandante del Battaglione Monte Cervino nella campagna di Russia e quella di Attilio Momigliano (1883-1952), saggista e critico letterario tra i più eccelsi del XX secolo.

Molte abitazioni conservano al loro interno tracce dei secoli che si sono succeduti dal medioevo fino ad oggi, come alcuni elementi decorativi, incavi per poggiare i lumi, camini, stucchi, porte, affreschi e splendidi soffitti, a memoria del loro antico pregio.

I Portici

I portici di una città hanno sempre avuto una duplice funzione di abbellimento e di riparo dal sole, dalla pioggia o dalla neve. A Ceva i portici esistenti risalgono al medioevo e si trovano nel centro storico in via Carlo Marenco, in via Lodovico Sauli, in via Roma, in piazza Gandolfi; alcuni resti si possono osservare anche in piazza Vittorio Emanuele II, ma nel tempo vennero chiusi ed inglobati negli edifici soprastanti, mentre al borgo Sottano se ne trovano ancora alcune porzioni su entrambi i lati di corso Garibaldi.

I portici di via Marenco possono essere definiti come il vero “centro” fisico della città, si sviluppano lungo tutto il suo tracciato, caratterizzato da residenze medioevali con pregevoli facciate alcune delle quali portate in luce e altre ancora nascoste sotto gli intonaci. I portici sono la sede del commercio e dei rapporti della vita sociale che si intrattengono sotto di essi da quasi otto secoli. Costituiscono il salotto della città, lo spazio di maggiore vitalità e fermento in tutte le stagioni. Costeggiano la via su entrambi i lati e sono distinti in portici piccoli (quelli sul lato settentrionale) e portici grandi o maggiori (quelli sul lato meridionale).

La loro origine è riconducibile alla seconda metà del XIII secolo, a testimonianza dell’importanza commerciale di questa strada, che nei tempi passati è stata denominata Contrada delle Volte ed in seguito Contrada Maestra.
Prima della costruzione di questi spazi coperti, il percorso era probabilmente caratterizzato dalla presenza di numerose tettoie lignee a servizio dei negozi adiacenti. Poiché il filo delle costruzioni era arretrato, la via era molto più larga ed aveva un aspetto differente rispetto a quello odierno e l’intero ambito era sicuramente più luminoso e arioso. La presenza di queste tettoie conferiva un aspetto disordinato, che poco si addiceva a quella che era considerata una delle aree più importanti della città. Per questo motivo, tra la metà del Duecento e i primi anni del Trecento, vennero fatti avanzare i fronti delle costruzioni, generando gli attuali portici e attribuendo così un’immagine ordinata alla strada, che conserva tuttora. Contestualmente e nei secoli successivi, vennero scavati vani sotterranei che servivano come magazzini e cantine alle botteghe e alle abitazioni sovrastanti. A questi locali si accedeva grazie a strutture in muratura, dette banconi, che venivano utilizzate come piani di appoggio per l’esposizione delle merci nei giorni di mercato.

A partire dal Cinquecento, questi manufatti accessori furono ritenuti ingombranti e di ostacolo al transito e lentamente cominciarono ad essere rimossi. Solo negli anni Quaranta dell’Ottocento vennero completamente demoliti e sostituiti con botole e relative inferriate presenti ancora oggi.

Come descritto dal professor Andrea Musso (1832-1902), negli Appunti di Cronaca Cevese, a metà dell’Ottocento la pavimentazione dei portici era in parte in selciato e pietra, in parte in lastricato di mattoni o di quadrelli e in alcuni tratti solo terreno nudo. Si trattava di una superficie irregolare, in certi punti discontinua, che rendeva «mal sicuro e poco piacevole il camminare lungo essi». A partire dal 1837, l’amministrazione civica, prima con il sindaco avvocato Moretti e poi col sindaco Carlo Marenco, si attivò per reperire i fondi necessari per riparare il selciato dei portici maggiori, ma nel 1838 si finì per deliberare di realizzarne uno ex novo in sostituzione di quello vecchio. Si diede inizio all’opera, eseguita in lastre di arenaria, solamente dal 1841. Questa pavimentazione resistette all’usura per molto più di un secolo e fu sostituita con nuove lastre di pietra di Luserna, negli anni Ottanta del Novecento per quanto riguarda i portici maggiori e nei primi anni 2000 per i portici piccoli.

Risalgono alla fine dell’Ottocento e ai primi decenni del Novecento la maggior parte delle vetrine delle attività commerciali presenti in via Marenco; si tratta di strutture espositive a monoblocco in legno, molte di pregevole fattura, spesso di importanti dimensioni, realizzate nei numerosi laboratori artigianali di falegnameria presenti a quell’epoca in Ceva.

Pentagramma in via Carlo Marenco

In occasione del rifacimento della facciata della casa sita in via Carlo Marenco, angolo con via Barberis, sul lato destro, è venuta alla luce un’interessante chiave di volta su uno degli archi. Questo elemento strutturale ha scolpito sopra un pentagramma (stella a cinque punte), al cui interno è raffigurato un fiore a cinque petali. Grazie ad analisi tecnico-scientifiche e a ricerche effettuate si è nelle condizioni di affermare che l’edificio risale ad un periodo tra fine Trecento e inizio Quattrocento, quindi le supposizioni che sono circolate dopo la scoperta del fregio che riguarderebbero una simbologia esoterica o di magia nera, dato che la stella ha una sola punta rivolta verso il basso, sono da considerarsi delle mere illazioni. Infatti si deve tener conto che non si tratta di un pentacolo, ossia una stella inserita in un cerchio con funzione di amuleto, né di un pentalfa, cioè un pentagramma geometrico con valenza solo esoterica. Inoltre i movimenti religiosi che hanno come culto la figura del diavolo ebbero origine e si svilupparono solo tra la fine del XVIII e inizio del XIX secolo. E’ da ritenersi quindi priva di fondamento l’ipotesi che in Ceva esistessero, quasi quattrocento anni prima, organizzazioni di iniziati al satanismo o comunque aggregazioni che praticassero una qualche forma di stregoneria. Il pentagramma in esame è una figura geometrica, ossia un poligono intrecciato e stellato che forma una stella a cinque punte con segmenti intersecati, dove è presente il “rapporto aureo” o “proporzione divina”, che suscita l’idea estetica di bello e perfezione. Il pentagramma compare rappresentato in ogni cultura e in ogni tempo; il suo primo significato è la conoscenza. I più antichi comparvero in Mesopotamia, nel 3500 a.C. ed erano collegati alle stelle e al luogo di residenza degli dei, poi presso babilonesi, egizi, indù, celti, ebrei (rappresentava il "pentateuco", i cinque libri di Mose') per finire coi cristiani (le cinque piaghe inflitte a Cristo durante la Crocifissione, i cinque misteri del Santo Rosario). Simbolo caro ai Pitagorici, veniva tracciato nelle epistole come saluto. Ancora oggi il pentagramma è, per alcune associazioni religiose, il simbolo dell’uomo rinato e del suo eterno divenire, grazie al quale si manifesta il piano di Dio.

Nel medioevo fu un simbolo usato per la protezione personale e per custodire porte e finestre. Con una sola punta verso l'alto simboleggiava l'estate, mentre con due rappresentava l'inverno. In seguito, alla fine del Quattrocento, Pico della Mirandola lo associò agli elementi. Essendo fondato sul numero cinque, che nasce dalla somma di un pari e un dispari, esso esprime l’unione dei diseguali e allude a una felicità raggiante nel congiungimento dei diversi elementi.
Il fiore messo in rilievo all’interno della stella rappresenta una rosa canina. Dal punto di vista della simbologia non esiste differenza sostanziale fra una stella e un fiore a cinque petali. Come quella rappresenta l’eccellenza armonica della bellezza, a cui si associa l’elevazione spirituale dell’uomo, l’evoluzione e la transizione dallo stato profano allo stato sacro. Simbolo di soavità, grazia, candore, perfezione e purificazione dello spirito; testimonianza di amore e di dolore. La rosa, che con le spine cerca di difendersi dalla profanazione, indica riservatezza e silenzio. Spesso venne utilizzata per ornare i confessionali con la scritta "sub rosa", sotto il sigillo del silenzio e della discrezione. Secondo la mitologia greca e romana la rosa canina è nata dal sangue di Adone e da quello di Venere, per questo esprime l’amore che genera e riproduce la vita. Venne quindi collegata al pianeta Venere, il quale disegna intorno al sole (rappresentato dal cerchio dentro la rosa), rispetto al punto di vista terrestre, una stella a cinque punte, nell’arco di 40 anni, che viene chiamata sia Stella del Mattino (preannuncia il sorgere del Sole), sia Stella della Sera (precede l’arrivo della notte). Perciò si viene a creare una consequenzialità tra: Venere dea = pianeta = pentagramma = rosa. Nell’antichità, chi era a conoscenza di questi dati, poteva conoscere in anticipo l’andamento delle maree, prevedere eclissi. La conoscenza di questi elementi dava “potere” alle caste di stregoni-sacerdoti. Secondo il cristianesimo, come il pentagramma, anche la rosa canina a cinque petali allude alle cinque ferite inflitte a Gesù in croce. Altra peculiarità è che per rigenerarsi non ha bisogno di essere impollinata, quindi nel medioevo venne presa come esempio per simboleggiare la verginità ed avvalorare tutto ciò che è puro, ermetico e discreto.

Quello che incuriosisce è capire il motivo per cui questo simbolo sia stato posto su questo edificio. Nel Medioevo il palazzo si presentava come un’unica struttura, il cui assetto architettonico non era di tipo abitativo. La domanda è: cosa ci faceva un palazzo con verosimile funzione pubblica vicino ad una delle porte di ingresso della città, precisamente quella detta di san Giovanni e quasi dirimpetto ad una chiesa, dismessa nel XVIII secolo, recante il medesimo titolo? In assenza di prove documentali si possono qui formulare solo alcune ipotesi. L’Ordine dei Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, comunemente chiamati Cavalieri Ospitalieri, detti poi di Rodi ed in seguito di Malta, cominciò a far registrare la sua presenza in Piemonte agli inizi del XII secolo. Costoro offrivano ospitalità ed asilo a pellegrini e viandanti, in qualche modo bisognosi di assistenza o cure. Nel cabreo delle proprietà in Piemonte dell'ordine risultano annoverati anche dei beni nella città di Ceva e pare che tra i suoi adepti figurassero anche alcuni componenti del casato marchionale (Bernardone e Gilardino). Il canonico Olivero nelle sue Memorie, in maniera però che si ritiene anacronistica, attribuisce ai Cavalieri di Malta la mansione di sorveglianza della porta del Brolio contro le incursioni dei Saraceni (questi in realtà se ne erano andati almeno 150 anni prima che i Cavalieri facessero la loro comparsa in Piemonte). La porta in questione avrebbe quindi potuto essere quella di san Giovanni, santo tra l’altro protettore dell’Ordine cavalleresco, di qui quindi può essere forse derivata l’intitolazione della chiesa e per conseguenza la denominazione della porta. Tutto ciò renderebbe plausibile pertanto l’attribuire l’edificio ai Cavalieri di Malta, con funzione di pubblico ricetto.

Un’altra stella è stata rinvenuta in un cortile di una casa di via Carlo Marenco, scolpita su una lastra di pietra e abbastanza simile alla precedente come fattura. Si tratta di una stella di David con una rosa canina al suo interno. La "stella a sei punte", detta anche sigillo di Salomone, rappresenta la civiltà e la religione ebraica; composta da due triangoli sovrapposti, uno col vertice rivolto verso l’alto, l’altro verso il basso, il primo rappresenta l’elemento femminile, l’acqua, il secondo l’elemento maschile, il fuoco. La stella di David venne anche usata nei secoli per identificare le comunità ebraiche nelle città. Il reperto testimonia la presenza di queste famiglie a Ceva, ma non indica l’esistenza di un vero e proprio ghetto. Ad esempio, durante il periodo fascista, la famiglia del critico letterario Momigliano poteva commerciare in città durante il giorno, ma doveva trasferirsi a dormire a Mondovì, dato che in città non vi era un posto idoneamente individuato per la prescritta “reclusione” notturna degli ebrei. Questa pietra potrebbe essere stata un decoro tombale per un bambino o una donna, oppure un’insegna di una famiglia ebraica che aveva un’attività commerciale o comunque pubblica nel centro storico, come ad esempio i Pollonia, famiglia di banchieri ebrei attivi in Ceva nella seconda metà del Cinquecento.